Shrek 2
C’era una volta il cinema d’animazione...
di Claudia Russo

 
  id., USA, 2004
di Andrei Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon, animazione


Facciamo un passo indietro, stiamo parlando del futuro…
È il 1995 e sugli schermi italiani appare Toy Story. Si tratta del primo cartone animato completamente realizzato in digitale dal connubio vincente Disney-Pixar ed è la svolta del film d’animazione.
La saga del popolo degli insetti, quella di Antz, noto in Italia come Zeta la formica e non realizzato dalla Disney-Pixar, ma dalla Dreamworks che avrebbe secondo le accuse rubato il progetto di quello che sarebbe poi diventato A Bug’s Life tanto per intenderci, detiene per parecchio tempo il ruolo di primo piano di questa nuova forma cinematografica che unisce effetti speciali, computer grafica e animazione classica.
Passando attraverso i nuovi lavori Pixar, tra cui il secondo episodio di Toy Story, Monsters & co, Alla ricerca di Nemo e soprattutto l’ultimo, assolutamente ben ideato, ben realizzato e ben scritto Gli incredibili, si va dal mondo animale a quello umano con una sempre maggiore abilità nella resa dei caratteri e delle tipologie dei personaggi.
È però nel 2001, l’anno di Shrek, che si fissa il punto di non ritorno del genere, il raggiungimento di un traguardo ineguagliabile.
L’orco verde e brutto ideato dalla coppia dei “cattivi” PDI-Dreamworks, campione d’incassi in tutto in mondo e invitato in concorso al festival di Cannes, sottolinea l’importanza di una nuova sorgente di possibilità realizzative: il software. La PDI, casa californiana nata a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, parte dalla produzione di spot pubblicitari per passare agli effetti speciali e di animazione digitale, senza mai abbandonare l’advertisement. Il segreto è tutto qui: una diversificazione delle offerte e la produzione artigianale di programmi che rendano possibile la realizzazione di progetti anche ambiziosi. Questo avviene soprattutto tramite una produzione di cortometraggi interna alla società: "Mentre gli animatori si sfogano" afferma l’italiano Luca Prasso (responsabile tecnico delle scene di massa in Antz e ora supervisore alle animazioni digitali per Shrek) "la società e la tecnologia applicata fanno passi da giganti".
Shrek segnò per primo l’entrata in scena in un film d’animazione di personaggi umani, fino a quel momento rimandata per la complessità dell’operazione. Creato un sistema di animazione facciale, questo stesso venne utilizzato anche per le restanti parti del corpo. Si chiama “Shaper” e consente di partire dalla costruzione di uno scheletro base (le ossa facciali, come in una radiografia) per arrivare all’aspetto più superficiale (la muscolatura e l’epidermide, fino all’effetto luminoso della pelle); ogni modificazione dello strato più interno si riflette su quello superiore. Da qui la mobilità dei muscoli e dei vestiti che ricoprono i personaggi. Non si tratta, dunque, di attori di serie B: basta pensare che è addirittura stato chiamato in causa un make-up artist per il volto della principessa Fiona.
Anche la traduzione dei fluidi di diversa viscosità (con il “Fluid Dynamics Simulation System” la PDI ha vinto nel 1999 il Siggraph), della peluria animata – il limite della staticità è stato superato con la morbidezza visiva della pelliccia di Ciuchino –, della capigliatura umana, della rappresentazione delle folle, ha richiesto l’utilizzo dei programmi succitati, oltre che la collaborazione di tutte le sezioni della PDI.
Questo è il miracolo della tecnica che Shrek ha rappresentato.
Ora veniamo a noi, veniamo a Shrek 2.
Se il primo episodio era stato definito furbo e irriverente, “figlio legittimo di mamma Disney ormai costretta a farsi parodia di se stessa”, questo secondo atto della saga dell’orco buono, della principessa brutta e del ciuco parlante, è parodia di tutto e tutti: dallo spettacolo alla politica passando per le favole tradizionali.
C’è il buon vecchio Ciuchino, che, come sottolinea in un suo articolo Alberto Crespi de L’Unità, è nient’altro che un asino “negro” (la voce e i tratti psicologici sono quelli di Eddie Murphy), che non disdegna l’idea di diventare uno stallone ma che alla fine avrà dalla storia il regalo forse più grande (in una scena inserita dopo i titoli di coda, in pieno stile Dreamworks e per premiare i cinefili doc che restano incollati davanti allo schermo finché tutte le luci della sala non si siano accese e lo schermo non sia ridiventato, drammaticamente, nero…); c’è il gatto con gli stivali che parla con furbo accento ispanico attraverso la voce originale di Banderas ed è un furbacchione-cialtrone la cui mossa segreta, invece di esser legata all’arte della spada o alla pratica delle arti marziali (come la principessa Fiona) risulta invece essere il suo sguardo coccolone e finto-indifeso che tanto ci ricorda quello assolutamente vincente di Belushi in The Blues Brothers (quello che lo salva della cieca vendetta della fidanzata abbandonata, tanto per capirci…); c’è la sorellastra di Cenerentola che è un travestito che lavora al bancone di un pub di dubbio gusto.
La storia raccontata è quella del post, quella di un amore maturo e sincero nella povertà e nella bruttezza e nella sfiga del vivere comune fuori dalle convenzioni e dai canoni dettati dalla Hollywood dei divi del cinema.
Il regno di Lontano Lontano è un’agghiacciante Hollywood in miniatura in cui ha la meglio l’apparenza sulla sostanza, la fama sulla capacità, e nella quale la fata madrina è una produttrice senza scrupoli che sfrutta i suoi dipendenti e corrompe il re in persona, ma che non è estranea ad ansie e patologie tipiche della nostra era e della nostra società del benessere e del consumo (rapporto bulimico con il cibo assunto come gratifica da preoccupazioni e stress).
Come nella commedia brillante Ti persento i miei (di Jay Roach, 2000), in cui un imbarazzato-imbarazzante Ben Stiller (attore quasi macchiettistico con quelle orecchie a sventola e quella camminata danzante) si trovava alle prese con un suocero del calibro di De Niro, che nasconde guarda caso un grosso segreto legato alla sua identità, così Shrek, l’orco della palude, si trova a cena con il re di Lontano Lontano senza rendersi inizialmente conto che anche sua maestà ha qualcosa da nascondere…
Allo stesso modo del primo capitolo, anche Shrek 2 è una miniera di citazioni che faranno la gioia dei cinefili ed è la prova definitiva del rovesciamento della dialettica buoni/cattivi tipica della favole e di quella belli/brutti propria del cinema made in Hollywood.
Più che nel primo film c’è in questa seconda prova una sorta di autoironia distaccata ed efficace, a supporto di un’ideologia democratica e politicamente schierata (tanto per cambiare non manca neppure qui la faccia dell’attuale presidente, che compare addirittura riflessa nello specchio magico di Biancaneve).
Nell’inarrestabile processo secondo cui il cinema di carne tende a voler diventare cartone animato e il cinema d’animazione tende alla perfetta riproduzione della realtà, Shrek 2 resta comunque un punto fermo: un connubio tra parodia, divertimento, lucida osservazione.
La colonna sonora, fatta di pezzi rock o pop (Conuting Crows, Boutterfly Boucher, David Bowie…), si presta perfettamente, nella sua freschezza e nel voluto disimpegno, allo stile dell’opera, sottolineandone la verve satirica. Bellissimo e intelligente.