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lo Scafandro e la farfalla
Le Scaphandre et le Papillon, Francia / Usa, 2007
di Julian Schnabel, con Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Marie-Josée Croze, Anne Consigny, Max Von Sydow

La vita guardata da fuori
recensione di Fiorella Pierini



I primi venti minuti di questo film si soffrono con la violenza di una scoperta: un uso straordinario della soggettiva ci mette gli occhi di un uomo che si risveglia dal coma, vittima di un ictus che lo ha paralizzato completamente. La “Locked-in sindrome” veste Jean-Do di uno scafandro che lo separa dalla vita risparmiando solo la sua mente, lucida, cosciente, attiva e la palpebra del suo occhio sinistro. Proprio questa lucidità, accolta inizialmente come una tortura atroce e grottesca, consentirà al protagonista di cogliere ciò che della (sua) vita gli era sfuggito e scoprire quel che rende umano un uomo e cosa lo trattiene al mondo.
La capacità di amare (e meritare in cambio amore), quella di dare valore alla propria memoria e nutrire la propria fantasia sono i catalizzatori del risveglio, e sono insieme vettore e oggetto della scoperta del protagonista.
Julian Schnabel, pittore e regista newyorchese, decide di confrontarsi per il suo terzo film con una storia vera, profondamente drammatica, adagiata su un territorio insidioso e difficile.
La messa in film della vicenda di Jean Dominique Bauby si svolge sulla traccia del suo romanzo autobiografico, scritto durante la permanenza nell'ospedale di Berk-Sur-Mer con l'aiuto di una redattrice, Claude Mendibil, a mezzo di uno sperimentale codice di comunicazione non-verbale basato sul movimento di una palpebra.
La faticosa gestazione di questo testo diviene il centro della narrazione cinematografica, e la scrittura si fa metafora del processo che consente all'uomo (e allo spettatore) di riflettere sulla propria esistenza e scoprire, osservando la vita da fuori, di essere stato, fino a quel momento, cieco. Jean-Dominique, ex-direttore della rivista “Elle” cui Mathieu Amalric presta il proprio volto intenso, appare un uomo colto, di talento, amato dalla sua famiglia e dalle sue donne, la cui superficialità, più che una colpa vera e propria, sembra essere null'altro che il risultato del tutto terreno di questa fortuna.
L'interesse del regista non è affatto quello di raccontarci una storia esemplare di redenzione, è il protagonista stesso, invece, a confessarci all'orecchio che lui, come forse la maggior parte degli uomini, non s'è mai fermato troppo a riflettere sulla straordinarietà della propria vita.
Il film, Palma d'oro a Cannes 2007 e vincitore di due Golden Globe, ha infatti il merito impagabile di non cedere al moralismo, mantenendosi intenso ed equilibrato quando sfiora il tema dell'eutanasia e della libertà di scelta, mentre indaga il senso filosofico del confine tra vita e morte. Questo tema, così astratto ed ampio in potenza, non viene mai svincolato dalla persistenza degli essenziali aspetti terreni che caratterizzano un essere umano: Jean-Do resta un uomo che soffre e ha paura, che ama, desidera, che rimpiange e ricorda, che sbaglia, impara, un uomo che si prende in giro, si arrende e poi lotta; tutto questo riesce a rendere persino il suo stato vegetativo qualcosa di simile alla vita vera e propria.
Commovente è l'accenno al rapporto tra il protagonista e suo padre, lo straordinario Max Von Sydow; il regista con poche pennellate suggerisce la dolcezza di questa relazione, rassegnata all'alternarsi dei ruoli nell'accudimento e straziata, dopo l'incidente, dall'impossibilità di contatto. Ma l'esempio, forse il più riuscito e toccante, di come il film sia in grado di restituire un'immagine autentica di quest'uomo è la descrizione del suo rapporto con le donne, quelle che già appartengono alla sua storia prima dell'ictus e quelle che ne entrano a far parte dopo; tutte coloro che, come creature angeliche, si prendono cura di lui. L'autenticità sta nel desiderio che continuamente queste donne suscitano in lui: il desiderio sessuale, il desiderio di contatto e di comunicazione. Incarnazione perfetta della donna allo stesso tempo celeste e infinitamente terrena è Emmanuelle Seigner, la bellissima e appassionata Céline, madre dei figli di Jean-Do; una donna intensa che supera se stessa e la propria gelosia per venire incontro ad un uomo che l'ha tradita, ma con il quale in fondo non cessa d'esistere un rapporto d'amore. Jean-Do la rimpiange, la ringrazia, spera che lo possa capire e perdonare; confrontandosi con lei (e con le tutte le altre) egli continua a rinnovare ed esprimere implicitamente quella sensazione di meraviglia e terrore sublime che probabilmente qualsiasi uomo vivo sperimenta nel confronto con una donna.
Il battito di questa palpebra-farfalla è dunque la pulsazione vitale di tutto un corpo e di tutta un'anima insieme.
Ne lo Scafandro e la farfalla si uniscono audacia e raffinatezza, i binari su cui avanza con particolare poesia lo sguardo di Schnabel. La sincerità dell'approccio registico non si traduce qui nel vincolo ad un rigoroso registro di realtà, ma lascia spazio a momenti di trasfigurazione onirica del vissuto, alla memoria, all'idealizzazione, uniche forme di evasione di un corpo naufragato nell'immobilità.
L'audacia del regista non risiede dunque esclusivamente nella delicata scelta iniziale di confrontarsi con un tema di tale portata, ma anche nella sua trattazione: laddove il contenuto è reale, drammaticamente crudele e, per scelta, non cede il passo all'astrazione filosofica, la trattazione visiva è invece straordinariamente elegante, eterea, ben lontana insomma dalla brutalità dell'infermità come la si percepisce nella vita reale. L'immagine filmica è rarefatta, attraversata da colori tenui e pastello, spazzata da un vento che la desatura leggermente avvicinandola sempre più alla pittura e al sogno. Tale aspetto potrebbe da alcuni essere considerato come un difetto o additato come l'espediente estetizzante che l'artista usa per non toccare fino in fondo la carne viva e dolorante del mondo e spegnere la crudezza del realismo nella bellezza. Si tratta invece di un segno (quasi grafico) del talento di Schnabel, la cifra della consapevolezza estetica e narrativa già espressa dal regista nei precedenti lavori (Basquiat, 1996; Prima che sia notte, 2000), una cifra estetica che qui si confronta con un tema shoccante senza per questo approfittare o voler provocare a tutti i costi la pietà o la commozione caritatevole.