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Romanzo criminale

Oltre il giardino: la verità del cinema
Di Adriano Ercolani

 
  Italia, 2005
di Michele Placido, con Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria, Stefano Accorsi, Anna Mouglalis, Jasmine Trinca, Elio Germano

Il peggior difetto del cinema italiano? Lasciando da parte un discorso molto articolato che andrebbe prima o poi affrontato riguardo i meccanismi perversi della nostra produzione, sicuramente possiamo trovarlo nella cosiddetta “sindrome delle due camere e cucina”: l’incapacità cioè ad andare oltre la piccola e sonnacchiosa storiellina, che è possibile raccontare senza scomodare tematiche di grande rilevanza e soprattutto esosi mezzi produttivi. Negli ultimi vent’anni di cinema italiano a nostro avviso soltanto due film sono riusciti, perlopiù grazie alla loro preziosa qualità estetica, a varcare le soglie dei nostri miseri confini, ponendosi come opere di livello assoluto: Come due coccodrilli di Giacomo Campiotti nell’ormai lontano 1994 e lo scorso anno Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino. Due pellicole che devono la loro indubbia riuscita soprattutto ad un affascinante impianto visivo, poggiato sulla scioltezza di una storia personale e coerentemente sviluppata.

Ebbene, il terzo lungometraggio che riesce ad elevarsi oltre il misero giardino del cinema italiano è questo superbo Romanzo criminale, che però raggiunge lo stesso risultato partendo da presupposti completamente differenti: Placido infatti compie un’impresa sbalorditiva, quella di usare tutti i mezzi più collaudati del cinema di genere per immergere il suo film nella nostra storia recente e relegarla a puro paradigma narrativo, in tutto e per tutto funzionale alle necessità del prodotto cinematografico in questione. Con Romanzo criminale non ci troviamo perciò di fronte ad un film storico, un’opera di denuncia sociale o politica, ma ad un poliziesco stringato e furioso, capace di scuotere lo spettatore a suon di pallottole. Partendo dal romanzo di Massimo De Cataldo, gli sceneggiatori Rulli e Petraglia ricavano uno script che si conforma alle più precise regole di questo genere, e le sfrutta i tutte le loro molte potenzialità: la storia dell’ascesa, del successo e della caduta dei tre criminali che sono stati al vertice della famigerata “banda della Magliana” ha tutti gli stilemi della grande parabola gangsteristica, e viene sviluppata adottando una strategia di costruzione dei personaggi che molto si avvicina a quella dell’epica americana: non soltanto quindi la tradizione del “poliziottesco all’italiana” viene chiamata in causa da questo lungometraggio, ma anche le epocali parabole di perdizione dei film di Scorsese e De Palma in primis. Il fatto che si stia parlando di assassini veramente esistiti, più o meno coinvolti nelle pagine più oscure della nostra storia recente, serve agli autori per rendere questo folgorante “exploitation” più credibile, e quindi più vero. La verità che infatti Romanzo criminale segue, in maniera assolutamente coerente con quello che il film vuole essere,non è quella dei fatti realmente accaduti e delle loro cause, ma quella che serve a rendere la storia ed i suoi protagonisti il più possibile paradigmatici, quindi pienamente funzionali alla storia; non trattandosi di una ricostruzione accurata di eventi, ma di un giallo a tinte forti, Placido preferisce allora stare più attaccato ai propri personaggi che alla cornice del film: ne scaturisce una regia compatta e nervosa, estremamente attenta alle psicologie ed all’interpretazione degli attori, fondamentale punto di forza della pellicola. Già, perché dovendo finalmente confrontarsi con ruoli “forti”, ben costruiti e come già detto paradigmatici, la scelta più logica era quella di affidarli ad attori in grado di esprimere per primo il carisma del personaggio. In questo Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria ed anche Stefano Accorsi nella parte più contraddittoria danno il meglio delle proprie capacità..

Tagliente, preciso, perfettamente sviluppato secondo alcune semplici direttrici, Romanzo criminale si pone come una delle pellicole italiane meglio riuscita di questi anni; quello che va applaudito di questo film, oltre le innegabili qualità della sua riuscita, è proprio l’idea alla basa del suo progetto: concentrarsi di nuovo su un cinema di genere, scritto e realizzato con la lucidità di chi conosce i propri mezzi e sa sfruttarli in pieno. Michele Placido, che tanto (e giustamente) avevamo vituperato quando si è lanciato nei terreni paludosi dell’autorialità esistenziale, con questo suo ultimo film guadagna nuovamente tutta la nostra ammirazione.