Ray
Il dono di essere ciechi
di Manuela Latini

 
  id., Usa, 2004
di Taylor Hackford , con Jamie Foxx, Kerry Washington, Clifton Powell


Affrontare la vita di un uomo di successo, entrare nella profondità del suo animo, scovarne anche le debolezze e i traumi: questo sembra essere lo scopo principale del regista Taylor Hackford nel raccontare la storia di Ray Charles. C’è riuscito mescolando la forza della musica con la magia e l’incubo di un’esistenza segnata dal buio. Hackford ha lavorato a lungo sul film, di cui lo stesso Ray Charles aveva letto e approvato la sceneggiatura scritta per lui in braille, offrendo un prezioso beneplacito sul progetto, tanto più che i fatti sono raccontati in un’autobiografia pubblicata dallo stesso musicista. Rispetto al libro, però, il film cerca la chiave di lettura emozionale dell’uomo-artista, trovandola nella morte di suo fratello ma finendo per giustificarsi troppo facilmente sul senso di colpa non elaborato di questo lutto.
La pellicola intreccia tre percorsi: la carriera artistica di Ray Charles, che inizia alla fine degli anni quaranta quando, ancora adolescente, decide di prendere un autobus alla volta di Seattle, passando per tutte le tappe fondamentali di quel percorso in salita; i suoi ricordi d’infanzia pieni di colori e di dolore: la povertà della depressione americana, la figura materna, l’incontro con la musica e la cecità dovuta al glaucoma che lo colpì a sette anni, dopo aver assistito impietrito alla morte per annegamento del fratello minore; gli incubi che lo attanagliano quotidianamente e l’incontro con l’eroina. Questi ultimi due elementi sono tenuti insieme nel film, il superamento dell’uno porta alla risoluzione dell’altro.
La linea guida è ovviamente la sua musica meravigliosa. Per chi non conosce bene Ray Charles il film è un importante stimolo all’incontro con il soul (poiché si ascoltano i successi maggiori dalla sua stessa voce) e con la cultura afro-americana che egli rappresenta e difende. Inizia infatti negli anni Sessanta anche il suo impegno civile legato alla battaglia per i diritti dei neri: il rifiuto di suonare nei club della Georgia per soli neri, sarà pagato con l’esilio a vita e una multa. Solo nel 1977 “Georgia on My Mind” diventa l’inno nazionale, con tante scuse!
La scena in cui è raccontato questo passaggio è però piuttosto didascalica, come anche quella dell’arresto per droga. Il difetto maggiore del film sta proprio in questa volontà di essere esaustivi nei fatti, appesantendo la storia di inutili passaggi, di date dei concerti, di voli aerei che annoiano più che informare. Anche perché i molti personaggi che fanno da contorno si rivelano spesso superficiali e creano una confusione da pettegolezzo.
Il film diventa più spassoso laddove si lascia spazio al simbolismo e al racconto della rivoluzione musicale che ha condotto. Nel 1954 con “I’ve Got a Woman”, il suo primo singolo, rompe gli argini costituiti dai generi, e supera i preconcetti sul gospel come musica esclusivamente legata a Dio. Ma Ray Charles aveva iniziato con la musica country and western e non tarda a riappropriarsi anche di quelle origini contadine, dopo aver firmato nel 1959 un nuovo contratto discografico con la ABC-Paramount.
La sua crescita artistica ed economica viene raccontata attraverso una selezione di quaranta canzoni che danno la reale misura della fusione dell’uomo con la musica: a cominciare dalle prime incisioni nel piccolo studio dell’Atlantic Records, passando per le tantissime tournée, per finire con le incisioni per la ABC-Paramount realizzate con l’orchestra. Un fiume di musica, una colonna sonora costruita sulle registrazioni dello stesso Ray Charles (che ha anche re-inciso le canzoni più vecchie), dalla quale si è proceduto alla sincronizzazione labiale con Jamie Foxx, lo splendido protagonista. Il lavoro svolto per assomigliare al personaggio, in tutte le sue movenze, è stato davvero mirabile.
Si avverte fin dal principio una gran cura per i particolari di costume e di ambientazione: grande merito allo scenografo Stephen Altman (Gosford Park) che ha dato veridicità ai luoghi ricostruiti e al direttore della fotografia, Pawel Edelman (Il pianista di Polanski) che sono riusciti, insieme a Hackford, ad integrare le riprese dei set in cui era ricostruita l’azione o dei luoghi originali (invecchiandole) con le riprese d’archivio, appositamente restaurate. Sui diversi livelli narrativi è inoltre stata studiata la parte fotografica: la biografia artistica di Ray è leggermente desaturata (anche per legare meglio con le immagini di repertorio), mentre gli incubi legati allo shock della morte del fratello e le visioni della madre hanno colori fortemente espressivi, iperrealistici, per rappresentare il mondo dei ricordi di un cieco.
L’infanzia di Ray è estremamente poetica, decisamente la parte migliore del film insieme alle visioni: un bambino nero con gli occhi semichiusi entra in casa e cade a terra perché non vede l’ostacolo. Piange chiamando sua madre che lo guarda sofferente ma senza soccorrerlo: sa che deve renderlo indipendente perché la vita da storpio sarà difficile. Riesce ad alzarsi. In quel momento avviene il primo miracolo della vita di Ray Charles Robinson: scopre di potersi orientare grazie all’udito, insegue un grillo per la stanza solo attraverso il suo canto. Poi sente la presenza della madre che lo osserva orgogliosa a pochi passi. A questa scena, alla musica e alla volontà di far immedesimare il pubblico nel mondo oscuro di questo grande artista (aiutano le frequenti dissolvenze in apertura e in chiusura) si deve il merito del film.