the Punisher
Il coraggio di Jonathan Hensleigh
di Giuliano Tomassacci

 
  id., Usa 2004
di Jonathan Hensleigh, con Thomas Jane, John Travolta, Will Patton, Laura Harring


Magari l’ultima riduzione cinematografica de Il Punitore (il primo tentativo ad opera di Mark Goldblatt, risalente al 1989, con Dolph Lundgren stretto nella t-shirt col teschio, meritò le sorti del direct-to-video) non potrà vantare l’appeal magnetico dei ben più sfavillanti eroi fumettistici recentemente affiliati al grande schermo: il basso profilo del protagonista, lo scarso autocompiacimento nel potere del proprio alter-ego combattente e il consequenziale peso specifico del codice CGI quasi prossimo allo zero assoluto, basterebbero già da soli a squalificare la prima fatica dietro la macchina da presa di Jonathan Hensleigh dalle consolidanti direttive del genere mainstream più lucrativo del momento.
Magari l’estetica e il montaggio derivati dalle correnti del genere americano anni ’60 e ’70 (che il regista stesso ha indicato quali principali materie d’ispirazione per il lungometraggio, facendo addirittura i nomi di Leone, Siegel e Peckinpah) non potranno che situarsi un gradino più in basso rispetto alla plastica fluidità estetica del Raimi di Spider-Man o alle conformi sgrammaticature registiche di Ang Lee per Hulk. Magari il meditato prorogarsi dell’evento vendicativo coltivato da Frank Castle nell’ultimo atto del lungometraggio – coincidente con la prima, unica ed effettiva certificazione del suo archetipo (anti)eroico, il Punitore del titolo – potrebbe senza meno scoraggiare il nutrito target adolescenziale tutt’altro che ignorato dai produttori.
Magari, insomma, l’ultima incursione cinematografica targata Marvel affronterà il sempre più volitivo gusto del pubblico indebolito dai non pochi deficit di fattura, ma va altresì notato come, esonerate dai principi degli incassi, le citate irregolarità del prodotto lavorino sul film in ‘sottrazione incrementante’ piuttosto che in direzione screditante.
Ripartendo dallo scarso carisma del protagonista, ad esempio, non si potrà sottovalutarne la corrispondente singolarità caratteriale rispetto al gotha dei suoi leggendari predecessori. Animato dall’estrema sete di risarcimento morale piuttosto che dal materiale bisogno di vendetta, solitario per scelta fino all’abnegazione totale (ne conseguono un deperimento significativo della traccia sentimentale, da sempre funzionale all’evolversi tipico del super-eroe per antonomasia, e una curiosa marginalizzazione della controparte femminile, poco più che accennata da Rebecca Romijn-Stamos), il personaggio aveva infatti subito un’iniziale indifferenza anche da parte del mercato fumettistico dopo la sua autonoma pubblicazione come spin-off di “The Amazing Spiderman”. E sempre a quelle anomale caratteristiche particolareggianti il comics americano, vanno accreditate le stimolanti possibilità interpretative offerte a Tom Jane, che veste il personaggio come un guanto: la sua prova potrebbe al limite mancare le contemplative solitudini esistenziali di Michael Keaton/Bruce Wayne, ma certo le sole tre battute di “Call Me The Punisher” doppiano di gran carriera l’inconsistenza del Ben Affleck/Daredevil.
Meritevole di un’ulteriore analisi è anche quel lento approssimarsi del plot alla palesante dichiarazione di supremazia del protagonista, perché controbilanciata – e in qualche modo alleggerita – da un’iniezione di schietta ironia apportata in sceneggiatura da alcune digressioni tutt’altro che ortodosse: su tutte, la sequenza di ‘action-slapstick’ tra Frank e il tirapiedi russo sull’Aria verdiana. Anche un’evidente e non poco ardita volontà di conferire all’intreccio tessiture di progressive text nella definizione dei villain di turno (la traccia omosessuale all’interno di un modulo consacrato al virilismo radicalizzato, l’inaspettato pathos conferito all’uccisione di Quentin Glass/Will Patton) permette ad Hensleigh di rivalersi su di un antagonista ai minimi storici già in sceneggiatura e affatto incrementato da un John Travolta fuori fase.
L’esordio di Hensleigh denota, infine, ulteriore freschezza nella scelta, coraggiosa ma ampiamente ripagata, di svicolarsi dalla saturazione musicale del topos elfmaniano affidando lo score del film da lui stesso sceneggiato (in collaborazione con Michael France) alle cure di un musicista dalla scrittura umana ed emotiva come Carlo Siliotto, responsabile di un commento allo stesso tempo funzionale e partecipe.
In definitiva va riconosciuto a The Punisher il tentativo di sconfinamento da un apparato narrativo che, anche se varato in tempi non sospetti, inizia a reclamare un giro di boa. Inoltre, l’esperienza di Hensleigh non è esente dal condividere con il resto delle comics-adaptation uno scarto estetico ragguardevole tra la letteratura d’origine e l’adattamento fotografico, quest’ultimo risultante ai punti sempre più ingenuo, grossolano e – paradossalmente – caricaturale. Uno scarto che solo l’ingente sforzo di Burton - coadiuvato dalle luci di Roger Pratt per il primo Batman e da quelle di Stefan Czapsky per il successivo Batman Returns ha finora solo parzialmente ridotto.