Hulk

Il mostro nascosto. Il cinema in agguato.
di Luca Perotti


La colonna sonora
  Id., Usa, 2003
di Ang Lee, con Eric Bana, Jennifer Connelly, Sam Elliot, Nick Nolte


Hulk, l’incredibile
Hulk, il film, è il condensato dell’incredibilità creativa del cinema americano adesso. Non è solamente la storia della genesi di un personaggio, straordinario per definizione - in virtù della sua appartenenza alla categoria dei supereroi -, accostabile alle altre creature dell’universo Marvel, eppure dannatamente dissimile e condannato a un’esistenza più randagia e complicata rispetto ai suoi supercolleghi.
Hulk, il film, è incredibile per la padronanza con cui il cinema americano riesce, come in un gioco di prestigio, a mostrare il trucco e a nasconderlo simultaneamente. A variare l’immenso patrimonio tecnico con combinazioni sempre nuove. Incredibile per come riesce a offrire un ventaglio di diversi livelli di lettura/visione tutti egualmente fruibili. Incredibile per l’elasticità con cui rende possibile fluttuare tra i vari piani grazie all’assenza di qualsiasi coercizione che indirizzi lo sguardo. Hulk è un film da vedere nell’orizzontalità del flusso narrativo e, al tempo stesso, nella verticalità di ogni elemento messo in gioco, a sua volta filtrabile e colmo di ipotesi di approfondimento e di un’ispezione svincolabile dalle linee guida dettate dalla fabula.
Hulk dimostra come sia sempre più doveroso guardare al cinema americano come un organismo partecipe e cosciente della sua stessa essenza in divenire: sistematicamente in agguato, pronto a scardinare gli schemi consueti pur facendo fede alle necessità del mercato. Guardando anche il recente Spider-Man di Sam Raimi, si tratta della conferma di una tendenza che è il frutto di una perspicacia cristallina: la dimostrazione di una maniera molto emancipata di pensare il cinema: perché lo sollecita continuamente adoperando qualsiasi pretesto narrativo; cercando regolarmente la via per un ennesimo impulso anche malgrado il vincolo, comodo e rischioso, onorevole e oneroso, che un blockbuster ad altissimo budget può rappresentare. La politica degli autori nel cinema americano non si arresta mai. E soprattutto, si guarda bene dall’imparare la pessima lezione europea (mi permetto di generalizzare): perciò non si emargina, non si autocelebra, ma lavora all’interno del mercato; non opta per ritagliarsi una nicchia isolata, “d’autore” appunto, ma sceglie di destreggiarsi nel flusso del cinema tout court. Che include anche un progetto come Hulk: il digitale come cuore della strategia per la messa a punto di un film di genere tratto da un fumetto Marvel. L’apogeo della prevedibilità e della preclusione, apparentemente. Ma solo apparentemente. È nella disciplina di una partitura che la fantasia e il famigerato sguardo possono osare di più.

Hulk, il mostro
Chi è Hulk? E chi è Hulk rispetto a tutti gli altri? Il reietto per antonomasia: al contempo mostro innocente, vittima disgraziata di una manipolazione genetica, entità errante braccata, in fuga dalla rabbia che porta dentro di sé. In fuga da sé.
Predestinazione o condanna? Lo domanda, legittimamente, Betty, la collega-compagna di Banner.
I vari Bruce Wayne, Clark Kent, Peter Parker sono dei predestinati poiché il loro potere è un regalo che non oscura del tutto la loro personalità ma, in definitiva, l’arricchisce. Perché possono amare ed essere amati anche nei panni di Batman, di Superman, di Spider Man. A Hulk questo diritto non spetta. Nell’olimpo degli dei del fumetto lui incarna il potere fuori controllo, il potere ingestibile, estemporaneo e perciò inaccettato. Hulk simboleggia l’esplosione coatta del rimosso, la deformazione mostruosa e messa a nudo del sommerso che andrebbe invece compresso e nascosto. Hulk è un condannato.
A differenza degli altri supereroi capaci di controllare i propri estri, quindi, Hulk è una creatura involontaria, il prodotto di una psicosi insopportabile e intollerabile. Un superpotere frustrante, il suo, perché la prestanza sovrumana cela la vulnerabilità interiore della quale, durante la trasformazione in colosso, rimane solamente la sbiadita reminescenza di un timido e magrolino ricercatore. Un eroe tragico, ma permeato da un romanticismo cavernoso, reso cupo da un destino perfido, e che può cedere solamente sotto la pressione mite dello sguardo premuroso di Betty.
Ma soprattutto Hulk è la dilatazione alterata e impazzita di una psiche che si ribella per mezzo del suo corpo. Che viaggia sul filo sottilissimo che divide l’invulnerabilità iperbolica del corpo dalla disgrazia di una mente in incessante apprensione. Quella di Bruce Banner, appunto, geneticamente modificato ed esposto a una scarica di radiazioni.

Hulk, il superattore
Hulk è un corpo extraquotidiano racchiuso e represso all’interno del corpo quotidiano di Bruce Banner, che equivale a una zona franca precaria che circonda la bestia finché la collera si rende ingestibile e abbatte il recinto nel corso della mutazione mostruosa. La bestia è l’altro da sé che necessita di coordinate spaziali diverse non trovando le quali, distrugge quelle correnti. Una personalità differente, perciò, simile a quella di un attore (di teatro in particolar modo) che ricerca una nuova sintesi di gesti, azioni, movimenti. Hulk evade dal corpo di Bruce Banner con il quale è in costante tensione antagonistica, così come un attore abbandona il guscio della sua identità e calca il palcoscenico indossando un altro corpo le cui percezioni cercano un diverso assestamento, un diverso adattamento con lo spazio agito.
Mentre Bruce è la figura di riferimento, ovvero il protagonista del film, interpretato con l’ usuale metodo naturalistico e che induce all’automatico processo di identificazione, l’irruzione nel profilmico di Hulk strangola il processo di identificazione stesso per innescare uno straniamento. La recitazione naturalistica lascia il campo alla gelida distanza brechtiana. Ma anche ad alcuni principi della tradizione teatrale asiatica.
Dov’è finita la figura di riferimento per lo spettatore? È lì, sullo schermo, ma prigioniera di un involucro anormale. Il polo d’attrazione dell’identificazione diventa invisibile; un mostro lo sostituisce con prevedibili effetti di disorientamento.
Non solo. Inseguito dai carrarmati, braccato dalle truppe militari, Hulk volteggia nel deserto: mastodontico e pesantissimo il fenomeno sovrumano danza sulle soffici dune sabbiose, si libra in volo, viene trascinato a velocità supersonica fino a impattare con la stratosfera e poi si inabissa nel mare. Il suo corpo può sopportare tutto: un superoe il cui unico potere è l’atletismo spinto all’eccesso. Hulk piroetta rapidissimo e leggero sulle dune malgrado il carico di massa che trasporta. Può farlo poiche riesce a fluire tra la miriade di sfumature comprese tra due polarità: il ‘Keras’ e il ‘Mani’ del teatro balinese oppure il ‘Lasya’ e il ‘Tandava’ della tradizione attorica indiana. Il duro e il morbido dunque, il vigoroso e il soffice. Hulk e la sabbia. Il suo corpo gravita delicato attorno alla sua pesantezza e si fa “pensiero-azione”; egli raggiunge un diverso equilibrio non più ordinario, bensì ‘di lusso’ che gli permette di volteggiare contenendo la pulsione energetica allo spasimo per poi rilasciarla, al contempo schiavo e padrone della sua mole.
A differenza di altri supereroi, Hulk non è un alter ego ma una diversa personalità che erompe dal corpo che la custodisce. Hulk è la maschera digitale che scaturisce da quella umana di Bruce Banner, abbandonandola. Il superattore digitale realizza il paradosso dell’attore di Diderot: liberarsi totalmente di un’identità per incarnarne un’altra. Il risultato è un atto di riverenza alla sacra legge del palcoscenico, comprensiva perfino della trasformazione in scena, sotto gli occhi del pubblico. L’emozione si eclissa sotto la mole di Hulk: distruttiva, a tratti goffa, ma dal moto limpido, composto da una serie di scatti di pura energia. Bruce Banner non esiste più. La sua psicosi non viene dunque enunciata ma tradotta nel movimento dei gesti abnormi compiuti da Hulk.
E il gigante verde reagisce istintivamente alle sollecitazioni dell’ambiente, dell’ecosistema recitativo come nell’ideale d’attore più puro ed essenziale: il superattore digitale va così a coincidere con la supermarionetta mitizzata da Kleist.

Hulk, il cinema
A ben vedere Ang Lee ha ricominciato da dove si era fermato. Se ne La tigre e il dragone a essere esasperata era la levità , in Hulk l’esagerazione della massa, della pesantezza, trascende per sposarsi con una leggerezza analoga che permette al gigante verde di armonizzarsi perfettamente con l’aria, la terra, l’acqua. I cavalieri spadaccini rimanevano in sospeso sulle foglie degli alberi, ostentando un’osmosi divina con la natura. Hulk, nell’istante della sua presunta scomparsa, sembra assorbirsi nella natura circostante, nella folta vegetazione del suo stesso colore.
In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un profilmico indipendente dai dettami cinematografici tradizionali. Hulk è un corpo che su quel profilmico vuole imporsi. La sua comparsa in scena crea un attrito forte, una discrepanza inusitata tra le sue movenze e lo spazio delimitato dallo schermo. E l’azione di infrangere tutti gli elementi scenografici rimanda all’intenzione di Hulk (del cinema?) di infrangere gli steccati e andare oltre. Egli esercita una pressione sui lati dello schermo quasi volesse continuare l’opera di devastazione iniziata stracciando i vestiti di Bruce Banner a cui ha fatto gonfiare la pelle, la carne, i muscoli a dismisura, fino a farli scoppiare.
Nel corpo di Bruce Banner coabitano due individui in lotta tra loro per prevalere uno sull’altro. Più precisamente coabitano due polarità giustapposte, ognuna delle quali contiene l’altra e all’altra è destinata a ritornare in una schizofrenica coazione a ripetere. Non c’è mai simultaneità, se non nel breve passaggio che attiva la mutazione. Anche se Ang Lee indugia e “splitta” lo schermo, si mostra incuriosito dalla frammentarietà, dalle tappe di passaggio da una personalità all’altra.
Si tratta di una scissione vera e propria che però non trova più una sufficiente via di descrizione nella semplice analisi psicologica, introspettiva del carattere del personaggio.
Hulk diventa perciò la messa in visione di questa coabitazione. Quando l’ira non può più essere trattenuta, il dentro erompe e diventa il fuori. Come in una vita a turni, una delle due polarità decide di mostrarsi e cancellare l’altra squarciando la membrana che ricopre il dramma della condizione disperata di un condannato. Una concezione della messa in visione dell’interiorità estremamente fisica, antinaturalistica e iperrealista.
Per permettere una tale imposizione che minaccia i lati dello schermo, allora, ecco il filmico e il profilmico fondersi indossando le vesti del digitale. La tecnica che sta alla base del progetto si sostanzia nella sua cruciale funzionalità con il dramma narrato.
Ma Ang Lee non si assoggetta al genere, non lascia alla tecnica il dominio della messa in visione. Ang Lee diventa soggetto all’interno del genere, si fonde con esso senza comunque perseguire l’obiettivo di una fluida riconciliazione con l’effetto speciale. Lo scorrimento narrativo e formale di Hulk fa da cassa di risonanza ai contenuti decisamente cupi, inquieti.
Non c’è mai riconciliazione, in questo film, nemmeno nel percorso registico. Sempre contrasto e urto.
E ciò echeggia il rapporto tra Bruce Banner, figlio rinnegato e infetto e suo padre che ostenta la sua possessività morbosa. Lo esprime chiaramente in un faccia a faccia struggente: del figlio gli interessa solamente la parte interiore che lui stesso gli ha trasmesso. Solo la manipolazione scientifica che suo figlio ha ereditato. Il rapporto padre-figlio, seppur abituale nel cinema americano, viene riletto in chiave fantascientifica e lascia tracce ancora più devastanti. Hulk è la lotta di una persona malata contro chi vuole inibirne l’istinto (il governo, i militari) e contro chi se ne vuole impossessare fino a distruggerlo, fino a renderlo un’entità antropomorfa.
Il padre infatti ‘diventa’ ciò che tocca come un Re Mida ‘cronenberghiano’ trasforma in organico ciò che è inorganico. E lo stesso intende fare con il figlio. Inglobarlo dentro di sé in un atto di estrema, morbosa metamorfosi che porterebbe alla dissoluzione definitiva di Bruce Banner. Il padre vuole attuare il più brutale degli atti: l’impossessamento letterale del figlio, il suo assorbimento genetico.
La citazione abbastanza ovvia dei tormenti mentali di Cronenberg attesta come il cinema americano cerchi sempre più di non isolarsi nell’autoreferenzialità, ma di far derivare l’idea di cinema dal confronto incrociato, persino palese come nel caso in questione. Un repertorio unitario da cui pescare per poi commutare; un passaggio fluido da autore ad autore che non è semplice citazione ma un gioco consapevole di ‘referenzialità’.
Il soggetto reagisce alla sua dissoluzione uccidendo il suo nemico numero uno: il padre. Ma ciò attesta definitivamente la sua condanna, lo definisce una volta per tutte come un emarginato. Come un colpevole. La sua unica via di fuga rimane allora, appunto, la fuga. Hulk dovrà scappare per sempre.