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Paranoid Park
id., Usa, 2007
di Gus Van Sant, con Gabe Nevins, Jake Miller, Taylor Momsen
Traiettorie del vuoto, estetica della dilatazione
recensione di Alessandro Gambino



Paranoid Park è il nome di un parco per appassionati di skateboard di Portland in cui si trovano gli skater più folli, anime dannate della città, giovani senza tetto, senza futuro, che bruciano le proprie vite sulla pista. Alex, 16 anni, attratto da quello che per molti è un paradiso artificiale, si avventura nel parco, dove accade però l’irreparabile. Una sera, accidentalmente, causa la morte di un agente di sicurezza. Decide di non dire nulla…
Premio speciale per la sessantesima edizione del Festival di Cannes, tratto dall’omonimo romanzo di Blake Nelson, il nuovo film di Gus Van Sant sta dentro e fuori la trilogia iniziata con Gerry, proseguita con Elephant, Palma d’Oro a Cannes 2003, e chiusa con Last Days. Come sta dentro e fuori tutto l’universo del suo cinema, a partire almeno da Belli e dannati. E dannate lo sono queste anime adolescenti messe in scena dal regista di Portland, dannate nella loro incomunicabilità, nella loro afasia, nel loro sguardo che è talmente contaminato da ritrovare un’aura di purezza virginale. È un cinema di corpi quello di Gus Van Sant, corpi che sono al tempo stesso oggetto del desiderio e vettori che si muovono lungo traiettorie esistenziali segnate dalle derive del senso. Le stesse traiettorie, plasticamente sinuose ma inesorabilmente casuali, segnate dagli skateboard. Vettori, in senso biologico, portatori del gene dell’alterità, di uno sguardo straniato che rivela la contiguità e, al tempo stesso, la siderale estraneità nei confronti della società adulta. In questo senso, ultra-corpi che assumono nella loro fisicità quel vuoto che segna profondamente il contemporaneo e che gli adulti ipocritamente ancora rimuovono. E come ultracorpi queste figure sospese nelle zone d’ombra dell’esistenza tendono a replicarsi, che evidenziano come tutto il cinema maschile (discorso a parte meriterebbero Cowgirls e Da morire; ma certo, per altri motivi, anche Psycho) di Gus Van Sant metta in scena fondamentalmente sempre lo stesso personaggio-matrice che produce i suoi replicanti, i suoi cloni, che si distinguono fra loro soltanto per dei piccoli slittamenti.
Dai tossici di Drugstore Cowboy all’alter-ego di Kurt Cobain di Last Days, passando per gli studenti di Columbine di Elephant, che si muovono nei corridoi senza fine della scuola come l’Alex di Paranoid Park. Il cinema di Gus Van Sant gioca costantemente con questa tensione fra ripetizione e slittamento. Come esplicitamente dichiarato in Psycho, duplicato inquadratura per inquadratura dall’originale hitchcockiano, ma così estraneo a Hitchcock. Come le scene ripetute più volte sia in Elephant, che in Paranoid Park. Scene ripetute che, nell’ultimo film, fanno da contrappunto a una narrazione che, di tanto in tanto, abbandona la detection per seguire linee narrative diverse che poi si interrompono senza portare a nulla, creando una antinomia fra sovrabbondanza e mancanza di senso.
La ripetizione continua delle immagini super8, in ralenti, sulle evoluzioni e sulle acrobazie degli skaters nel parco, visioni sognanti e acquose, vibranti di disturbi sonori e di silenzi. Con la complicità di Christopher Doyle, storico direttore della fotografia di Wong Kar-Wai, con cui Van Sant aveva già lavorato in Psycho, il regista crea così un senso di sospensione allucinata, una dilatazione dei concetti di spazio e tempo che è proprio la chiave per entrare nella sua estetica. Un’estetica assolutamente non immobile, ma fondata su una continua ricerca (che include variazioni e ritorni, passi in avanti e ripensamenti), come dimostra il lavoro di riflessione sui materiali visivi (la dialettica fra super8 e 35mm, le sequenze ondulanti, il pedinamento di Alex, il fuoricampo come interrogazione del vuoto) e sonori (gli elettronici suoni disturbanti e minimali che accompagnano il super8 in contrapposizione alla musica classica - Beethoven -, di memoria cinematografica - Rota, riciclato da Fellini - e rock che fanno deflagrare l’afasia del protagonista) svolto in Paranoid Park. Perché se Gus Van Sant in fondo fa sempre lo stesso film, il suo cinema muta continuamente forma. Come il cinema di tutti i grandi autori.