Last days

L’elefante visto da dentro
di Adriano Ercolani

 
  id., USA 2004
di Gus Van Sant, con Michael Pitt, Lukas Haas, Asia Argento, Harmony Korine


Con un processo cinematografico di inaudita coerenza, prima concettuale e conseguentemente stilistica, Gus Van Sant adopera lo stesso involucro formale di Elephant per ricostruire, reinterpretandola secondo la propria visione personale - proprio come la strage del liceo di Columbine raccontata nel film Palma d’Oro a Cannes 2003 - la tragedia della morte di Kurt Cobain, leader dello storico gruppo che ha inventato il grunge, i Nirvana. Sotto questo punto di vista, dunque, Last Days si pone come seguito logico ed ideale del precedente lavoro del regista, ma allo stesso tempo anche come lucido approfondimento sulle possibilità di sfruttare una stessa idea di cinema attraverso una prospettiva diversa.
Proviamo ad essere più chiari: il discorso estetico sulla durata dell’inquadratura, sul tempo/spazio cinematografico così fortemente destrutturato e poi ricomposto in Elephant, rappresentava al meglio la materializzazione del vuoto emotivo e psicologico in cui erano immerse le figure presenti nel lungometraggio, sia fossero essi vittime o carnefici. In quel caso si assisteva ad un non-senso ossessivo che invadeva dall’esterno ogni tentativo di relazione umana e sociale, impedendone qualsiasi proliferazione. In Last Days questo stesso concetto di messa in scena viene superbamente adoperato per inscenare il processo esattamente opposto: è il vuoto e lo spaesamento interiore del protagonista che pervade ed imprigiona il contesto filmico, che invade la materia esterna invece di subirne la violenza. Non a caso, la violentissima asetticità dei corridoi della scuola di Elephant è qui sostituita fin dall’inizio da boschi rigogliosi, laghi incontaminati, e soprattutto dall’interno di una vecchia casa un po’ decaduta ma accogliente, “calda”. Anche la gelida fotografia del film precedente adesso si fa elegante lavoro di costruzione dell’inquadratura, sempre riscaldata dalla una luce densa e porosa creata da Harris Savides. Lo straniamento dunque stavolta arriva dall’interno, dall’impossibilità di comunicazione che Blake/Kurt dimostra costantemente nei confronti del gruppo di colleghi/amici che dividono la casa con lui: in questo modo lo stesso discorso filmico ammirato in precedenza si dimostra ugualmente coerente.
Last Days è un film indubbiamente più empatico e partecipe rispetto ad Elephant, e ne è in un certo senso il superamento emotivo. A parte questo però si tratta della stessa impostazione estetica, dello stesso impulso tendente all’esasperazione della forma filmica: gli interminabili e dolorosi piano-sequenza, soprattutto quelli ad inquadratura fissa, riescono clamorosamente a restituire sia i momenti di sfasatura esistenziale del protagonista - vedi la involontariamente comicissima, e per questo drammatica, conversazione assurda di Blake con il venditore di pagine gialle -, sia attimi di profonda intimità e solitudine - tutti i momenti in cui il musicista si isola con la propria musica. L’unico neo che Last Days forse possiede è il nuovo tentativo di smembramento temporale della storia, che se in Elephant era assolutamente funzionale al racconto di un’assenza totale di senso, qui sembra più un elegante pretesto formale. Questa indecisione strutturale non inficia però a nostro avviso il risultato finale di un film lucido ed intenso, interpretato oltretutto da un Michael Pitt di suggestiva aderenza psicologica al personaggio. Guai a considerare il lavoro di Gus Van Sant un semplice esercizio formale: il suo è uno sguardo attento e personale sul vuoto di una società, sia esso proveniente dalla stessa o dai membri che la compongono.