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Non è un paese per vecchi
No Country for Old Men, Usa, 2007
di Joel e Ethan Coen, con Josh Brolin, Javier Bardem, Tommy Lee Jones, Kelly MacDonald

Doppia visione
recensioni di Francesco Rosetti e Adriano Ercolani



Il west e il deserto
di Francesco Rosetti

Per la prima volta, tra i tantissimi generi che i Coen hanno decostruito e smontato, fa capolino il western. E, come da copione per i due registi americani, ci troviamo di fronte ad una doppia decostruzione perché già il romanzo di Mc Cormack, da cui il film è tratto, appare come un gelido e terribile de profundis sul mito del west e sulla civiltà che quel mito, più o meno carico di rimozioni, aveva prodotto. La fuga di Liewelyn Moss (Josh Brolin) con una valigia carica di soldi, inseguito da un killer gelido e atono (Javier Bardem) e da uno sceriffo disilluso e stanco è già filmicamente Peckinpah, magari ritradotto nella malinconia disperata e scarna di Clint Eastwood. Ma ai Coen non interessa tanto la decadenza di un mondo, di una civiltà e di un sistema di valori, da cui probabilmente si sono sempre tenuti sardonicamente lontani con amara misantropia. Il fatto è che il western è simultaneamente il deserto, luogo che i fratelli prediligono fin dai tempi del bianco abbacinante di Fargo, e il cinema. Appunto Ford, e con lui Peckinpah. E i due luoghi finiscono per coincidere in quello che è il referente sistematico di tutto il cinema dei Coen: l’ assurdo. Il romanzo di Mc Cormack viene lentamente asciugato a quello che è il suo scheletro narrativo, il suo meccanismo primario. La fuga di Josh Brolin, le devastazioni dell’ allucinato Javier Bardem, l’amara constatazione dei fatti di Tommy Lee Jones. Ci sono i luoghi i personaggi secondari, le esplosioni di violenza, l’ ironia tipica dei Coen e tutte le loro marche stilistiche. Ma tutto il film è costruito su questa iterazione meccanica, in cui alla fine i personaggi non hanno mai veramente il controllo della situazione. Non lo ha il fuggitivo Moss, prigioniero di un sogno di ricchezza ovviamente più grande di lui, che scatena una serie terribile di conseguenze. Non lo ha il killer Chigurh, totalmente rinchiuso nella catena ottusa e ripetitiva delle sue violenze e del suo giochino con una monetina, emblema del caos che porta, ma anche della coazione in cui è rinchiuso. Non lo ha lo sceriffo Bell, una sorta di coscienza critica disillusa il cui compito è più quello di registrare e commentare senza capire che di agire direttamente. E se Bell, con le fattezze scavate e fordiane di Tommy Lee Jones è il simbolo dell’ epopea western, allora siamo al rovesciamento completo del titanismo di John Wayne nelle raffigurazioni di Ford e Hawks, lì attore e dominatore della natura, per quanto con abissi di follia. Qui spettatore, impotente, disilluso, soprattutto incapace di interpretazioni che spieghino quanto gli appare davanti. E di nuovo siamo al deserto, che è il luogo topico di un’intera filmografia. Ciò che interessa ai Coen è uno spazio vasto e possibilmente vuoto. Ebbene qui, come ne il Petroliere di P.T. Anderson (altra epopea nascosta sul mito western), questo luogo deserto e arido dove si inscena una sorta di road movie, è un luogo della mente. Ma appunto un luogo privo di coordinate, pieno di detriti visivi, in cui è impossibile reperire un’opzione di senso. Precedentemente si è parlato di Fargo e il parallelo con quel film non è peregrino. Anche in Fargo veniva istituito un sostanziale parallelismo tra i paesaggi bianchi e innevati del Minnesota e i fatti assurdi che, quasi senza concatenazione logica vi prendevano corpo. Il risultato era che le location di Fargo sembravano un luogo astratto, tanto era alieno dalle coordinate interpretative dello spettatore. Qui avviene la stessa cosa. Il deserto del Texas, come le scarne ambientazioni urbane che lo contrappuntano, sono il non luogo ideale, per così dire, in cui ambientare l’ ottuso meccanismo distruttivo che pervade tutto il film. E dietro al deserto il cinema. Se western c’è in Non è un paese per vecchi è soprattutto nella coscienza cinefila dei due registi americani, tra coloro che più utilizzano la citazione dopo Quentin Tarantino. L’ambientazione della pellicola, gli anni Ottanta, consente ai Coen, un gioco consueto, quello di abbinare referenti visivi differenti, il west, Peckinpah e il road movie, oltre appunto a Tarantino, che è un referente da non sottovalutare in questo film. Deserto vuol dire anche deserto di segni cinematografici, che lo spettatore può tranquillamente ritrovare aguzzando un po’ lo sguardo. Ma appunto li può trovare frammischiati, mescolati, incapaci di rendere più che una serie di strati iconografici. All’assurdo narrativo si abbina l’ assurdo visivo. Certo la regia dei Coen con il tempo si è asciugata e non ci troviamo più di fronte ai virtuosismi di Barton Fink o de il Grande Lebowski, che viaggiavano felicemente senza centro, vuoi narrativo, vuoi contenutistico. Qui la trama romanzesca molto articolata obbliga la regia alla concentrazione, piuttosto che alla divagazione. Ma proprio la concentrazione narrativa rende ancora più stridenti i contrasti visivi e dunque contenutistici del film. Nel romanzo assistiamo ancora ad una amara constatazione di una fine di un’epoca, travolta da un passaggio antropologico di cui il romanzo stesso si fa specchio. Qui il mito già decostruito appare come da sempre inesistente. Il western dei Coen è, come sempre, un patchwork immerso nel deserto. Eppure il sogno finale di Tommy Lee Jones, comunque commovente, è un’attestazione del mito passato come possibile opzione futura. Assume si una vaga coloritura ultramondana, ma non negativa, di un qualcosa che non arriva, ma si annuncia sempre.


L’assenza di dio
di Adriano Ercolani

Il dio generico citato nel titolo di questo pezzo non sta ad indicare una qualsiasi personalizzazione di un’entità sovrumana, quanto piuttosto la pulsione tutta umana di cercare nell’ignoto un principio razionalizzante, un agente superiore che dia all’esistenza un ordine ed una finalità, quand’anche fosse essa sconosciuta all’intelligenza umana. Tale esigenza viene comunemente chiamata religiosità, un fattore che in qualche modo si contrappone alla mancanza di senso, al caos che potrebbe agire come unico fulcro del destino umano.
Il cinema dei Coen è stato costantemente impermeato dall’ammissione di quest’assenza, aspetto che nella maggior parte delle loro pellicole è stato in qualche modo attutito dal surreale senso dell’humour che contraddistingue la loro idea di scrittura filmica, e soprattutto di messa in scena. In Non è un paese per vecchi si assiste invece alla radicale rappresentazione di un universo senza significato, in cui i personaggi agiscono per proprio volere comunque immersi in una casualità che accomuna giusto e sbagliato, valore e amoralità.
La grandezza dell’adattamento del tagliente romanzo di Cormack McCarthy sta nello spostamento concettuale che i Coen riescono a creare pur mantenendo praticamente intatta la trama della versione originale. Dove infatti lo scrittore ha raccontato della perdita di valori un tempo fondanti, i cineasti di Minneapolis invece rendono la loro pellicola un teorema spaventoso sull’assenza di essi, sulla loro negazione, intesa appunto come non-essenza e non come scomparsa. Sotto questo punto di vista sia il braccato Llewellyn Moss che il segugio sanguinario Anton Chigurgh altro non risultano se non pesci che nuotano in un acquario illogico, casuale, impossibile da prevedere. E non perché un tempo lo si poteva gestire attraverso magari un codice morale ormai tramontato, ma proprio perché le cose vanno così, secondo i Coen. Questo slittamento ha prodotto uno dei lungometraggi più sconcertanti e nichilisti della storia del cinema.
La forma filmica è la perfetta conseguenza di questo discorso, e si mostra all’occhio dello spettatore ancor più stilizzata rispetto al solito lavoro di distacco con cui i Coen si approcciano ai loro lavori: la mancanza pressoché totale di movimenti di macchina avvalora ancora di più lo straordinario lavoro sull’inquadratura e sui tagli di luce che Roger Deakins compone con una maestria ormai consumata; Non è un paese per vecchi sotto questo punto di vista rimanda direttamente al folgorante esordio dei cineasti, Blood Simple, e ne rielabora il discorso estetico alla luce di una capacità di sintesi registica difficilmente superabile, anche all’interno della stessa filmografia dei Coen.