il Mistero dei templari
Indiana Cage e l’ironia perduta
di Emanuele Boccianti

 
  National Treasure, Usa, 2004
di Jon Turteltaub, con Nicolas Cage, Diane Kruger, Justin Bartha, Sean Bean, Jon Voight, Harvey Keitel, Christopher Plummer


Nicolas Cage come Indiana Jones? Non scherziamo. L’ultima fatica del nipotino d’oro di Francis Ford Coppola ha alcuni ingredienti fondamentali che lo accostano al film di Spielberg: avventura, ironia, e gigionerie a profusione. Sufficit? Proprio no. Lasciamo perdere da subito paragoni troppo impegnativi e concentriamoci solo su quello che questa megaproduzione dal sapore di strenna natalizia può effettivamente vantare. Soltanto a queste condizioni si può raggiungere il nirvana istantaneo che alcuni popcorn movie comunque riescono a darci.
L’idea è accattivante, perché si discosta dalla tipica caccia al tesoro dell’archeologo avventuriero quel tanto che basta da eliminare indigeste sensazioni di déjà-vu industriale. Innanzitutto si tratta di una archeologia contemporanea, tutta inscritta nell’arco della storia moderna americana; niente tombe egizie o templi aztechi, tanto per intenderci, sebbene il soggetto della ricerca, così come è stato costruito dagli sceneggiatori, affondi le sue radici effettivamente nell’Egitto dei faraoni. Ma stavolta lo scenario è tutt’altro che esotico: al posto di ponti di corda tibetani, cripte sotterranee, giungle e deserti ci sono le avenue newyorkesi, Wall Street, e chiese dall’aspetto decisamente recente. La mappa del tesoro non poteva mancare, senonché, per rispettare l’arguta traslazione dal contesto esotico a quello metropolitano, si è pensato bene di farla spuntare sul retro della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Sono questi i due perni attorno cui ruota l’intero asse narrativo: la caccia al tesoro metropolitana e il folle progetto di rubare la Dichiarazione d’Indipendenza, presentato come il furto più irrealizzabile del mondo, salvo poi attuarlo in ben due maniere parallele e contemporanee, dopo un’organizzazione e un dispiegamento di forze che danno nuovi significati alla parola inverosimile.
Ma la verosimiglianza non è stata presa granché in considerazione nella produzione di questo film: con una buona dose di prepotente spavalderia, il regista John Turteltaub e lo sceneggiatore Jim Kouf hanno sentito di potersi ritenere liberi da qualsiasi preoccupazione circa la sospensione dell’incredulità, col risultato di dare vita a qualcosa di massicciamente spensierato, da succhiare via come lo zucchero filato al luna park, senza starci tanto a pensare su. Nicolas Cage-Ben Gates, è capace di improvvisarsi dall’oggi al domani il più bravo ed ipertecnologico ladro sulla faccia della terra, mentre fino al giorno prima faceva l’archeologo? E qual è il problema? Evidentemente, nessun problema, se non per chi la Dichiarazione doveva proteggerla, che si vede rifilare una doppia figura da peracottaro. Già, perché sono due distinte bande di ladri a convergere, per scopi completamente differenti, sull’agognata pergamena: una, quella dei buoni, costretti dagli eventi a trafugarla per proteggerla, l’altra, i cattivi traditori, per mettere le mani sul più grande tesoro dell’umanità. E tutte e due le bande, con uno stile che avrebbe fatto invidia all’Ethan Hunt di Mission Impossibile, arrivano al caveau più sorvegliato del mondo. E lo fanno in barba a tutti, così come in barba a tutti, FBI inclusa, proseguono la loro competizione personale in giro per New York, strappandosi a vicenda la mappa di mano, ingannandosi, scappando e rincorrendosi. Fino a che, in maniera rocambolesca e al contempo scontatissima, i buoni arrivano a posare gli occhi su ettari interi di ori e gioielli, mentre i cattivi vengono convinti a partire per Boston (sic) all’ultimo minuto.
Il vero sale del film è l’ironia, benché di grana grossa, che anima parecchie situazioni, costruite anche con l’utilizzo del co-protagonista, l’attore Justin Bartha, braccio destro dell’archeologo eroico Ben Gates, che si profonde in decine di piccole gag dal sapore macchiettistico, sempre permettendo l’ovvio contrappunto tra eroe cool e spalla sfigata. Non vi sono dubbi però sul fatto che di sale in questa pellicola ce ne sia poco, dato che non riesce ad evitare la putrefazione per noia, andando ben oltre la naturale data di scadenza che un prodotto del genere dovrebbe avere. Due ore e dieci minuti per dare credito al regista e seguire di buon grado le disneyane vicende dei due archeologi (più la bellezza di turno, certa Diane Kruger, reduce dai costumi di Elena di Troia nel Troy di Petersen) sono, a nostro modesto avviso, veramente troppe. Deve essere stata l’intima convinzione di stare facendo un’opera di pubblica utilità a spingere regista e produttore a sforare il naturale limite di sopportazione dello spettatore medio. Intendiamo: un’opera di pubblica utilità politica, viene da supporre, visto che lo sfoggio di iconografia celebrativa americana è tale da infastidire anche l’americanofilo più convinto, e che il patriottismo che scintilla negli occhi e nella chiostra di denti del sorriso di mister Cage rende fondato il sospetto che un velo di propaganda politica abbia coperto leggermente ma omogeneamente tutto il film. E ogni cosa allora assume contorni appena più sinistri quando si riflette su quante volte nel film passi la battuta che spesso gli eroi ispirati dalla verità e dalla giustizia devono infrangere le regole ed essere considerati dal resto del mondo come dei criminali, quando in realtà loro - e solo loro - sanno che quello che stanno facendo è nobile e retto, e che alla lunga anche la storia darà loro ragione.
Indiana Jones combatteva senza fair play, di tanto in tanto, sparando con nonchalance a poveri beduini armati solo di coltellaccio, ma non ce lo ricordiamo a rivendicare il diritto di essere al di sopra della legge. Forse il merito maggiore de Il mistero dei templari è quello involontario di essere un altro segno dei tempi.