Million Dollar Baby

L’Horror anomalo
di Giuliano Tomassacci

 
  id., Usa, 2004
di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman


Million Dollar Baby è cinema horror allo stato puro, e oltre. Puro nella sua accezione di genere indagatore di creature malviste e malvolute che perciò spaventano, ostentano bestialità e procurano terrore, arrancando ai margini di una società impreparata alla disarmante schiettezza di animi liberi e incontaminati; un sistema umano che dopo averli demotivati, defraudati del loro caratterizzante candore li bandisce ai margini della collaudata normalità, tra “il Nulla e l’Addio”, relegandoli ad un’emarginazione che finisce, presto o tardi, per convincerli della loro effettiva alterità.
Con il ricorso ad una messa in scena incredibilmente evocativa, Clint Eastwood aveva sintetizzato i dubbi di tali rinnegati e maledetti animi in Mystic River. Dubbi che scorrevano negli occhi sofferenti di Dave Boyle (Tim Robbins) e che trovavano involontaria conferma negli sguardi attoniti della moglie Celeste (Marcia Gay Harden), durante un confronto lacerante nell’oscurità inesorabile della loro casa. Vittima di un crimine pedofilo, l’incapacità di Dave di riallinearsi alla fredda quotidianità lo rendeva colpevole di innocenza, fino a quel momento non del tutto cosciente di essere ormai per sempre perduto, come gli zombie che dietro di lui riempivano lo schermo televisivo illuminandolo sinistramente, quasi per amalgamarlo alla loro schiera, al loro stato mentale. Cosciente - e per questo roso dall’interno dal suo demone - si incamminava sulla sua strada lasciandosi trasportare dalla propria diversità, incapace di ritrovare sintonia con la vita, dai “vivi” messo all’angolo.
Frankie Dunn (Eastwood), in Million Dollar Baby, vive questa dimensione da circa 23 anni. Un arco di tempo in cui i suoi pugili lo hanno tradito per ingaggi e occasioni più allettanti, sua figlia lo ha ripudiato rimandando con ostinazione le sue lettere al mittente e Dio sembra averlo abbandonato alla sua dannazione di manager fallito e uomo disilluso. La sua fortuna, rispetto a Dave, è quella di scontrarsi con un altro “non-morto”, costretto in cattività ad oltrepassare la linea di demarcazione tra il sole dei mortali e l’oscurità del suo squallido appartamento. Maggie (Hilary Swank), assurge a quintessenza del loser eastwoodiano, tratteggiata proprio come uno zombie pilotato da un unico scopo (la passione per la boxe) che si ciba della carne altrui (gli scarti raccolti sui tavoli del ristorante in cui lavora) consumando la sua esistenza diurna prima che la notte la restituisca alla squallida palestra di Frankie. L’anziano allenatore, prima recidivo, alla fine cede al morso dell’irremovibile ragazza - contaminato dalla sua determinazione a diventare una pugile professionista: si riaccende lo spettro carnivoro di un uomo che ancor prima della sua allieva aveva vissuto sulle carni dei suoi pretendenti, dissetando il vigore sportivo con il sangue spruzzato a bordo ring.
Horror assoluto, fino all’essenza. E non solo, come si è visto, negli schemi del trascinante testo (volutamente sbilanciato tra un prima parte ben candenzata e una seconda di maggior respiro, quasi un lungo epilogo innestato a metà lungometraggio), rielaborazione dei racconto di F.X. Toole a cura di Paul Haggis, ma altrettanto nella volontà formale dell’autore. Il direttore della fotografia Tom Stern è chiamato ancora una volta a disegnare fasci di luce plumbei e funerei che spezzano il buio pesto degli ambienti in accordo all’estetica del bianco/nero di genere anni ‘50. I personaggi si affacciano dalla tenebra alla luce come un Bela Lugosi o un Christopher Lee d’annata. Il primo incontro tra Maggie e Frankie per esempio, dove il taglio alto tratteggia i lineamenti duri della Swank, giovane Dracula che sembra aver scelto la sua preda portatrice di linfa vitale. Un’estetica insomma che collabora alla definizione di un microcosmo parallelo, dove i demoni urbani cercano di riciclare le loro esistenze, stridendo visivamente a contatto con la normalità del materiale umano: i parenti della protagonista, nella loro visita ospedaliera, colorati dalle magliette di Disneyland sfiorano l’iperrealismo burtoniano.
La “storia d’amore” (così definita dal regista stesso) è poi intrisa di un romanticismo fondamentale al gotico di genere. Ma è qui che si rintraccia, nell’opera di Eastwood, l’interessante sovversione ai termini del testo tradizionale. Scaturisce tra i due protagonisti, infatti, una rapporto padre/figlia che annulla il processo conflittuale tra vittima e preda inibendo le dinamiche conflittuali portanti. Perché Frankie e Maggie si amano senza resistenza, entrambi appartenenti alla medesima condizione morale: non c’è Bene che sconfigge Male, né fanciulla che fugge al mostro o spettro che terrorizza cittadina. Anzi la coppia si salvaguarda, appunto, dal Bene esterno (“proteggersi sempre” è il motto di Frankie). Si guarda da quel mondo assolato e corretto che li ha resi quello che sono. L’inesistenza di una lotta tra le parti (che di converso amplifica il conflitto psicologico iniziale) è una partita giocata in una sola metà campo: non si vince e non si perde, il genere ripiega su stesso e per questo nobilita i sottotesti da sempre più interessanti (la discriminazione, l’incomprensione per il diverso, la passione e la purezza dell’istintività della “creatura”). Inoltre la corrispondenza sentimentale dei due inverte il fatalistico, canonico andamento di sceneggiatura. Il loro è un viaggio inverso rispetto alle altre creature del buio: poiché già annientanti all’inizio del film, il loro tragitto non potrà che essere di purificazione e riconquista etica (Maggie che accetta finalmente un pasto decente, Frankie che riconsidera le sue posizioni più radicali), piuttosto che di dannazione e annientamento finale.
Eastwood è senza dubbio al massimo della sua scrittura registica. L’asciuttezza narrativa sottende ancora una volta l’esperienza di un cineasta finissimo e misurato, che saggiamente domina lo stupendo racconto per immagini con invenzioni di regia che stordiscono come un colpo ben assestato dopo una serie di finte (si noti l’insistenza nel riprendere lo sgabello piazzato a bordo ring sempre in anticipo sulla campana di fine round, in preparazione dello snodo drammatico che porterà al secondo atto del film). La scelta di affidare al voice-over del compare di Frankie, Scrap (Morgan Freeman), il ricordo dei due protagonisti rileva poi lo straordinario classicismo a cui il regista sembra non volere per nessun motivo sottrarsi.
A metà tra il coro greco e il resoconto nostalgico, il commento di Scrap provvede poi ad accentuare l’alone di leggenda che ogni horror reclama. Persino il più anomalo.