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Lussuria - seduzione e tradimento
Se, jie, Usa / Cina, 2007
di Ang Lee, con Tony Leung, Tang Wei, Joan Chen, Wang Leehom

Vittime e carnefici del cinema
recensione di Marco Giallonardi



Dopo i mille commenti che a Venezia accompagnarono la notizia del Leone d’oro assegnato ad Ang Lee, a solo due anni di distanza da quello vinto per i Segreti di Brokeback Mountain, risulta forse un po’ troppo pedante ripercorrere le tappe di quelle critiche, le accuse ai registi-giurati incapaci di valutare i film come una Giuria da Festival competente e completa, l’aver dimenticato titoli di certo più meritevoli, e via dicendo. L’approccio corretto pare piuttosto quello di guardare al film, al suo corpo significante e ai modelli di messa in scena che utilizza, nel contesto della sua uscita italiana.
Presentandosi come il classico polpettone per signora over 50, Lussuria propone tutti i cliché del genere, senza rischiare di sporcarsi le mani con rivisitazioni di codici o modifiche al sistema. Tutto è estremamente ordinato, prevedibile, funzionale. La ricostruzione storica è accurata e completa, efficace nel seguire i dialoghi delle signore che giocano o l’avvento dello spirito rivoluzionario nella protagonista, conseguenza della sua passione per la recitazione (che forse ci sia qui qualche spunto per un discorso sul cinema e l’acting?...). L’immagine è sobria, i colori un po’ spenti, l’accademismo dell’insieme evidente. La costruzione dei personaggi, le diversità così come le convergenze dei loro caratteri, ed ugualmente la direzione degli attori, molto caricata, hanno il sapore d’antico, per non dire superato, che sfiora a tratti il ridicolo. Studio system e aria da kolossal, insomma: il film non delude chi si aspettava un prodotto dalla grande confezione e con pochi sussulti. La regia di Ang Lee, dopo la scena iniziale in cui si lancia in qualche iperbole, aiutata da un montaggio sincopato, si adagia su quadri e forme di visione concilianti, semplici, del tutto al servizio della storia.
Con tali premesse, in un contesto formale ortodosso e corretto come questo, in cui si fa fatica a trovare qualcosa che rompa con la formula del fumettone/polpettone d’epoca che ben conosciamo, poco stupisce e mette a disagio come vorrebbe il turning point del film, la relazione violenta, complessa ed autolesionista (per la rivoluzione) che esplode tra il cattivo e la rivoluzionaria buona. I due motivi di trasgressione e disturbo su cui l’intero film è costruito, e che vorrebbero giustificare la forma bolsa di tutto il corpo del film, non si rivelano all’altezza, se non in misura davvero contenuta: si, è vero, Tony Leung che fa il cattivo e il sadico non è male, sia per diversità rispetto ai ruoli interpretati dall’attore in passato, sia per la crudezza e la spietatezza con cui si mostra nel film. Allo stesso modo, sospese in un confine incerto tra comicità e sensualità estrema, le scene di sesso acrobatico tanto chiacchierate tra i due protagonisti risaltano nell’insieme, è evidente, e stupiscono per fantasia ed intensità.
Come dicevamo, però, a questa rottura costruita dal film manca l’empatia, il vibrare di un conflitto formale che forse avrebbe salvato il lungometragio. La “grande forma” scialba del filmone d’epoca edulcora la crudezza di questi elementi, annacquando in un mare melenso e noioso il ruolo scomodo e di rottura che tanto il racconto quanto la regia non si prendono la briga di interpretare.
Allora forse, spostando lo sguardo, si può cercare nel conflitto della pelicola, nel tema di fondo, nello sporcarsi dei buoni che diventano cattivi e dei cattivi che si trasformano in affascinanti (ma non buoni), nel confondersi tra vittime e carnefici che poi è il succo o il sale del film, un confine critico cui attaccarsi per parlare bene di Lussuria? Difficile anche qui trovare qualcosa di valido o anche solo di minimamente originale cui appigliarsi: tutto è stanco e prevedibile in questo giochino di interscambio passionale e voluttuoso tra bene e male, compreso il colpo di scena finale e l’epilogo interrotto che tanto vorrebbe essere la cifra emozionale del film.
Dove trovare quindi una risposta all’annosa questione di partenza (perché questo scellerato Leone d’Oro…)? Sulle pagine di Segnocinema, in un articolo che sintetizza vizi e virtù della mostra di quest’anno (e della mostra di Venezia in generale) come pochi altri, Alberto Pezzotta sottolinea un dato fondamentale, in un’industria cinematografica internazionale sempre più condizionata dai risultati dei festival e sempre più legata alle Leggi del Mercato: Focus Features, il venditore internazionale del film, è lo stesso che vende nel mondo i film di Zhang Yimou, presidente della Giuria al Festival. Che forse il conflitto d’interessi abbia deciso più della qualità del film?
Sarebbe come dire che i due interpreti di Babel di Inarritu, e cioè Brad Pitt e Cate Blanchett, sono stati i vincitori della Coppa Volpi agli attori (il primo davvero poco comprensibile, se si pensa anche solo all’interpretazione di Tommy Lee Jones per Nella valle di Elah - il secondo più comprensibile). Per caso Alejandro Inarritu era tra i giurati?...