Kill Bill vol. 2

L’amata immortale e il piacere infinito
di Luca Perotti


Kill Bill vol. 1

  id., Usa, 2003
di Quentin Tarantino, con Uma Thurman, Darryl Hannah, Michael Madsen


Attenzione! Questo articolo contiene numerose anticipazioni sulla trama del film.

Con la mini epopea di Kill Bill, Tarantino esalta la sua idea più grande: quella di un cinema incessantemente vivo, che combatte con tenacia ogni principio di morte tramite una costante rimessa in moto delle pulsioni, delle spinte emozionali, delle sollecitazioni sensoriali.
Un’opera sregolata, delirante e sovversiva, la sua, che è frutto di una maturità maggiore e di una libertà che gli ha permesso di ricavare il meglio dal potere conseguito in termini di libertà artistica, e che con Kill Bill esplode in un afflato ribelle più adulto e calcolato.
Come se Tarantino avesse messo a fuoco un bersaglio e volesse eliminarlo con la medesima ostinazione zen di Black Mamba/Uma Thurman. Ma per Tarantino, il Bill da uccidere con sete cinefila di vendetta coincide con tutto ciò che al cinema diventa freno inibitorio: l’obiettivo è quello di rigettare ogni attenuazione del piacere intenso di fare e mostrare cinema in ogni istante della messa in scena, combattendom strenuamente l’azione della forza di gravità che trascina a fondo verso la stasi e l’appiattimento.
Tarantino si concentra su un agente catalizzatore fondamentale per lasciar esplodere la sua estasi di cinema: è Uma Thurman a impersonare la musa cineispiratrice, il supercorpo che rigetta la morte e custodisce il segreto della resurrezione e dell’immortalità.
Se in Kill Bill vol. 1, la bionda Black Mamba sopravvive ad un colpo di pistola e risorge dallo stato comatoso (malgrado il quale è riuscita a partorire comunque una bambina) per avviarsi sul sentiero della vendetta; in Kill Bill vol. 2, Uma risorge addirittura dal sottosuolo. Seppellita viva, ricorre agli insegnamenti del maestro cinese Pei Mei e ritorna letteralmente sulla terra con testarda impertinenza uscendo dal cimitero come uno zombie.
Ma il culto del ‘corpo Uma’ viene ancora da più lontano se pensiamo come già in Pulp Fiction, Uma perde coscienza e rischia la morte per overdose di cocaina prima che un ago scagliatole brutalmente nel petto la riconsegni al mondo. Lo stesso petto sul quale Sidewinder/Micheal Madsen scarica un fucile a pallettoni dall’interno della sua roulotte.
Il corpo di Uma Thurman viene strapazzato da Tarantino, che lo adora ai limiti del feticismo. Il corpo di Uma viene sottoposto ad ogni tipo di stravizio fisico, compreso lo stupro, ma dimostra una resistenza sovrumana. Tarantino la pedina, la staglia contro sfondi di ogni colore, la affonda nella granulosità del bianco e nero, la converte in una silhouette, e si ostina a metterne a dura prova la capacità di sopportazione fisica scaraventandola nei corpo a corpo più estremi e contro i nemici più invincibili. Ma ad ogni condanna a morte coincide puntualmente un’opposizione accanita, un agguerrito rigurgito vitale che scaturisce da una forza prodigiosa che può appartenere solo alla sfera esclusiva dei supereroi. Ed è a un supereroe che lo stesso Bill la paragona quando giunge il momento di spiegarle l’assurdità del suo gesto assassino.
Uma è, di fatto, l’amata immortale che incarna il sogno di eternità del cinema di Tarantino. La sua visione del cinema coincide con la visione della vita di Bill, ed entrambi considerano Black Mamba/Beatrix Kiddo/Uma Thurman, l’agente catalizzatore esemplare.
Se Bill arriva ad uccidere la sua amata immortale per impedirle la normalizzazione della sua esistenza, impedendole di fatto di vestire per sempre il ‘business suit’ di Clark Kent (l’alter ego di Superman e non viceversa secondo la sua squisita interpretazione del celebre fumetto); allo stesso modo per Tarantino Uma rappresenta l’arma speciale contro la normalizzazione dell’impulso nel cinema, contro il suo annullamento nell’inerzia fatale.
Per il ‘corpocinema’ prescelto da Tarantino qualsiasi impresa è possibile (lo stesso vale per Bill che ne decreta la superiorità rispetto alle altre ‘vipers’ scegliendola come amante e madre di sua figlia). E per raccontare le sue gesta, Tarantino rinuncia a ogni moderazione, non si concede pause, carica il film di innumerevoli sottotracce, percorre senza sosta una linea temporale invisibile scompigliando punti di vista e schizzando da un flashforward a un flashback e viceversa.
Tarantino sembra volersi collocare su una linea temporale infinita priva di unità di misura che non sia quella di un eterno presente, in cui non esiste un principio e una fine. Del resto nell’Olimpo dei supereroi il limite temporale non ha alcun senso: la loro è un’esistenza perpetua dilatata allo spasimo che può contenere interminabili anni di addestramento o lunghi periodi passati a letto in coma. Tutto è comunque racchiuso in un’epoca unitaria che sfugge agli ordinari parametri temporali.
E medesima, a ben guardare, risulta la concezione del cinema secondo il Tarantino-pensiero: il cinema è materiale sterminato da ripescare e reinventare cogliendolo da un abisso che non ha una fine, da una miniera inesauribile di tesori ogni volta riscoperti.
Il comandamento da rispettare è soprattutto uno: evitare la fine dello stato di ebbrezza, non interrompere mai il puro piacere del cinema tenendolo perpetuamente lontano dalla vertigine del nulla quando si giunge a ridosso dei punti morti.
Tarantino non fa altro che neutralizzare i momenti di stasi del racconto individuando dei punti sui quali erigere dei castelli di digressioni e lasciare che soffi l’istinto vitale di conservazione (e ciò che Bill pretende da Black Mamba è soprattutto questo: la conservazione di una superspecie). Sono punti di propagazione che vengono individuati, bloccati ed espansi. Pensiamo, in Kill Bill, alla disquisizione di Bill su Superman e Clark Kent, appunto, o ancora a Elle Driver/Daryl Hannah che legge pedissequamente l’azione tossica del veleno del serpente che ha ucciso SideWinder/Micheal Madsen (ps: il serpente è guarda caso il Black Mamba: la vendetta della sposa arriva anche in maniera beffarda e transitiva).
Ma pensiamo anche alle divagazioni su Like a Virgin in Le iene, o agli svolazzi verbali sui cheeseburger in Pulp Fiction.
Ma ovviamente è soprattutto la rappresentazione della morte ad incentivare il bisogno primario di arresto ed espansione dell’attimo ristagnante, per cui il momento della morte si carica di grandezza romantica e diventa un’oasi iperbolica ed iperrealista che sembra voler neutralizzare la morte stessa allungandone i tempi di esecuzione.
I personaggi dei film di Tarantino appartengono ad una stirpe speciale (e la sposa è la più speciale di tutti), hanno i loro codici, custodiscono segreti e abilità, nascono con un’aura mitica da fumetto (basti vedere Mocassino acquatico/Lucy Liu la cui origine viene narrata con toni leggendari nell’anime giapponese).
Essi stessi sfuggono alla normalizzazione, e anche se la loro indole è estremamente cattiva, Tarantino non disdegna di ritagliargli un posto esclusivo, un segno particolare indimenticabile.
Per non parlare infine degli infinit subplot, degli innumerevoli legami che collegano tra loro film, fatti e personaggi, come se fossero tutti la prole di una covata singola, di una unica genesi. E il riferimento va allora all’appuntamento tra John Travolta e Uma Thurman in Pulp Fiction, durante il quale lei espone la trama di un telefilm pilota incentrato esattamente su una squadra di femmine killer, le Divas di Kill Bill, appunto.
Si tratta di una serie di nessi, attinenze, richiami necessari che si congiungono nello sforzo di ottenere lo statuto di cult e godere di una durevolezza infinita che mantenga uno stato perpetuo di piacere cinefilo puro, costantemente in moto e aperto a nuovi capitoli, pronto ad infilarsi in qualche fenditura temporale, in qualche altro anfratto mitico e da lì sconfinare altrove.
Evitare la morte, dunque, e reagire ad essa con un’orgia ininterrotta di invenzioni.
Non per niente Kill Bill vol. 1 prende il via da uno sparo mortale, da un annullamento nel coma profondo. Ma l’ultimissima inquadratura, collocata sul vertice estremo di Kill Bill vol. 2, ci regala un divertente flash dal backstage: Uma Thurman con un’orbita oculare in mano aspetta lo stop del regista e poi, ridendo compiaciuta per la scena appena girata, dice: “Let’s do it again”. Facciamolo ancora. Perché la ricerca dell’orgasmo e dell’ebbrezza non deve mai interrompersi ma seguire un moto costante, una escalation irrequieta che non ammette né pause né inibizioni.