the Hunted

Per un cinema in tumulto
di Adriano Ercolani

 
  the Hunted, Usa, 2003
di William Friedkin, con Tommy Lee Jones, Benicio Del Toro, Connie Nielsen


Vi è tutta una generazione di grandi autori che, soprattutto a partire dalla rivoluzione avvenuta ad Hollywood alla fine degli anni ‘60, hanno portato avanti un discorso cinematografico basato su un modo di girare molto istintivo, viscerale: registi come John Frankenheimer, Don Siegel, Michael Cimino o Francis Ford Coppola hanno realizzato molti dei loro capolavori dando libero sfogo alla propria visionarietà, al proprio istinto di cineasta, invece che basandosi soltanto sulle loro indiscutibili capacità tecniche. Lungometraggi come La Notte Brava del Soldato Jonathan (The Beguiled, 1970) Il Cacciatore (The Deer Hunter, 1978) o Apocalypse Now (id., 1979) esprimono in pieno, anche se su diversi livelli estetici e concettuali, la libertà espressiva con cui sono stati ideati e realizzati.
La maggior espressione di questo tipo di cinema tumultuoso e vertiginoso è però forse arrivata da William Friedkin, autore che ha sempre messo il proprio istinto e senso dello spettacolo davanti alle esigenze sia dell’establishment hollywoodiano che delle leggi di mercato. Come è capitato per Cimino con “Il Cacciatore”, quando Friedkin è riuscito ad incanalare le proprie capacità registiche al servizio di una sceneggiatura ben congeniata e poderosa, ne sono venuti fuori capolavori assoluti come L’Esorcista (The Exorcist, 1973), Il Braccio Violento della Legge (The French Connection, 1971) o Vivere e Morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A., 1985). In altre occasioni Friedkin ha saputo compensare con la propria abilità gli scompensi e gli squilibri degli script: è il caso soprattutto del bellissimo Il Salario della Paura (The Sorcerer, 1977), remake del capolavoro di Clouzot.
Quest’ultimo, tumultuoso The Hunted appartiene sicuramente al secondo tipo di film diretti da Friedkin; la storia, o meglio il canovaccio di storia, risulta essere soltanto un pretesto, peraltro perfettamente funzionale, per girare in piena libertà creativa una pellicola che sembra essere uscita fuori da un’altra epoca di cinema; in un sistema produttivo come quello hollywoodiano, in cui ogni pellicola di genere, dal budget anche appena consistente, viene organizzata nei minimi dettagli e costruita a tavolino in ogni sua fase di lavorazione (lasciando ben poco spazio alla creatività personale del regista, almeno quando si tratta di un prodotto medio), questa ultima fatica di Friedkin ha il sapore del cinema antico, nato e realizzato grazie al fuoco sacro di un cineasta istintivo, impetuoso, azzardato. Ed il film riflette in pieno (ed è questa la grande coerenza interna dell’opera) il modo di fare cinema del suo creatore. The Hunted è un film di pura regia, e questo non deve sviare il lettore: non si tratta di una direzione leccata, elegante, tipica del prodotto ben confezionato da un artista capace. Stiamo parlando invece di un’estetica cinematografica che molto sembra dovere all’improvvisazione, al colpo di genio improvviso, all’impeto creativo di un cineasta che procede per tentativi, senza un disegno preciso, affidandosi ad un istinto per il cinema davvero inusitato. Ecco che il risultato si conferma visivamente prezioso, con inquadrature che sono coerentemente sia descrittive che evocative (vedi il vertiginoso dolly su Tommy-Lee Jones che attraversa gli alberi sui rami, a decine di metri da terra), ed un montaggio che invece di percorrere la strada sicura del raccordo logico sceglie di assecondare l’emozione, il ritmo, il pulsare dell’azione (magnificamente il pre-finale con lo spostamento dallo scenario cittadino a quello della foresta che avviene in meno di trenta secondi…). Da parte sua, la fotografia di Caleb Deschanel serve alla perfezione il disegno estetico di Friedkin, riuscendo a regalarci immagini che allo stesso tempo sono realistiche e rarefatte: non soltanto le parti immerse nella natura sono cinema quasi astratto, ma anche alcuni momenti girati tra i palazzi riescono a contenere in sé una bellezza antica, quasi trascendente la storia.
The Hunted è dunque un film estremamente prezioso nel suo strano anacronismo: forse lo è soprattutto per questo. La pellicola infatti riflette in pieno il proprio autore, e la sua carriera più che trentennale; sbilanciato, imperfetto, “sgraziato” a tratti, possiede però in sé la forza impetuosa ed istintiva della grande opera di cinema. Ancora una volta, Friedkin riesce con la propria visceralità a trascendere il realismo (prima matrice estetica della sua arte) in qualcosa di più articolato, difficile da esplicare a parole. Come in L’esorcista o in Il Salario della Paura, sappiamo che quello che stiamo vedendo non è assolutamente plausibile: eppure Friedkin imposta il film come se lo fosse e riesce a farcelo credere, salvo poi inserire nella messa in scena, anzi articolare la messa in scena, come un qualcosa di casuale, immediato, raggelante nel suo senso di verità. Così in The Hunted lo spettacolo a cui assistiamo, imperniato di realismo, lo supera per arrivare a qualcos’altro, una stilizzazione visiva (e sonora) che sembra nata per caso, ma che ormai è marchio specifico delle migliori opere di uno dei cineasti più spiazzanti, affascinanti ed enigmatici del nostro tempo.