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il Braccio violento della legge
The French Connection, Usa, 1971
di William Friedkin, con Gene Hackman, Roy Scheider, Fernando Rey

L’attesa del vero
cult di Adriano Ercolani



Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo il concetto hollywoodiano di “messa in scena” crolla, ed in un certo senso viene ad essere sostituito da un nuovo modo di intendere il cinema che potremmo chiamare “messa in visione”: quello che infatti viene quasi totalmente sradicato dall’idea-film è proprio la scena, intesa come costruzione artificiosa di un set in cui girare “buone immagini”. Attraverso un processo che, simile, è avvenuto in Italia nel secondo Dopoguerra ed in Francia con la Nouvelle Vague – ma i presupposti da cui queste correnti nacquero sono radicalmente differenti, non va dimenticato – la strada diventa il termine estetico di confronto primario per un nuovo modo di fare cinema, che vede nell’espressione dell’immediatezza e della “realtà” (termine da prendere sempre con le molle…) il nuovo credo. Se pubblico e critica percepiscono immediatamente il vento del cambiamento e lo abbracciano con pochissime riserve, è solo con The French Connection che Hollywood offre cittadinanza ai nuovi autori che propongono questa visione alternativa: i 5 Oscar guadagnati dal film, tra cui quelli per la miglior pellicola dell’anno, per Friedkin e per Hackman, stanno a significare non che l’industria si è arresa alla rivoluzione dei “movie brats”, ma che è già riuscita ad accettarli e quindi ad inglobarne le idee portanti dentro i suoi meccanismi produttivi, magari leggermente modificati per adattarli a questa nuova impostazione.
La forma del cinema di Friedkin raggiunge il suo primo, completo espletamento ne il Braccio violento della legge: l’impostazione visiva si rivela come la coerente prosecuzione del lavoro documentaristico che ha contrassegnato gli esordi del cineasta. Non stiamo parlando però di rappresentazione scarna e realistica, bensì di un’interpretazione personale che Friedkin ha elaborato di tali stilemi: il suo cinema non si muove verso il raggiungimento della verosimiglianza, ma piuttosto verso un’estetica che ne restituisca quanto più possibile la potenza espressiva. Questo film è infatti sanguigno e pulsante come se fosse un instant-movie, ma in nessun momento perde di vista l’importanza della costruzione stilistica che il suo autore sta cercando. In questo senso il Braccio violento della legge è probabilmente il maggior punto di equilibrio, il compromesso più importante tra le esigenze stilistiche della “nuova Hollywood” e le necessità comunque imprescindibili di un’industria dello spettacolo che deve sempre e comunque confrontarsi con il grande pubblico. Friedkin è riuscito a saldare queste due forze, centrifughe ma non opposte, attraverso una sorta di “realismo visionario” di incredibile resa cinematografica, che troverà il suo incredibile punto di massima espressione in un lavoro inarrivabile come l’Esorcista.
Detto in sintesi dell’organizzazione della forma in questa pellicola, bisogna però affrontare il vero motivo per cui probabilmente essa ha cambiato le regole del gioco, ed ha scritto una pagina fondamentale per la storia del cinema americano. Dove il film compie una rivoluzione strutturale è nell’introduzione del tempo filmico come componente portante della ricerca verso la veridicità(presunta): mentre in precedenza il montaggio rappresentava la costruzione di un tempo propriamente cinematografico, interno alla materia, codificato ed accettato a livello più o meno inconscio dallo spettatore, con il Braccio violento della legge si assiste ad una frantumazione di questo tempo ed all’istituzione di un ritmo capace di generare verosimiglianza, o almeno quella verosimiglianza che serve a Friedkin per arrivare a raggiungere il suo “reale”. Avendo avuto l’opportunità di discutere e lavorare con Daniela Catelli adoperando alcune scene del film, in particolare la sequenza del pedinamento a distanza di Charnier/Rey ad opera di “Popeye” Doyle/Hackman, mi sono reso conto come l’attesa dell’evento viene nel film prolungata attraverso un controllo del ritmo narrativo che diventa esso stesso generatore di energia, magari immobile ma comunque instabile e capace di creare senso cinematografico. I secondi interminabili in cui il poliziotto aspetta e spia al freddo lo spacciatore comodamente seduto nel suo ristorante sono la rappresentazione più silenziosa ma maggiormente importante di questa nuova impostazione ritmica che Friedkin adopera per caricare il suo cinema di due fattori tra loro esplosivi come appunto la sua concezione del realismo e l’accumulo di tensione. Anche in altre scene più esplicitamente cinetiche, come ad esempio il leggendario inseguimento tra Doyle e Nicoli/Bozzuffi per le strade di New York, è costruito attraverso una dilatazione temporale che ne accentua ai massimi livelli sia la tensione drammatica che la capacità di rendere partecipe chi guarda di un evento che potrebbe “sembrare vero”.
il Braccio violento della legge rappresenta a ben pensarci il momento più significativo, quello in cui uno degli autori della “Nuova Hollywood” detta le regole per un nuovo compromesso, destinato in seguito a tornare squilibrato in favore dello show-business: Friedkin spalanca la porta agli anni ’70, ai lavori più personali di Coppola soprattutto, ma anche di Scorsese, ed in maniera del tutto differente di Lucas e Spielberg. Il suo primo capolavoro arriva dritto allo stomaco, riuscendo nella difficile impresa di farti credere per un momento che la visione personale possa condizionare e superare le regole dell’industria. Il futuro smentirà quest’illusione, ma The French Connection rimane ugualmente una delle più significative “allucinazioni” che quel periodo ci ha regalato.