Cinema, film, recensioni, critica. Offscreen.it


Halloween: the beginning
Halloween, Usa, 2007
di Rob Zombie, con Tyler Mane, Sheri Moon Zombie, Malcolm McDowell, Brad Dourif, William Forsythe

La laicizzazione del mostro
recensione di Emanuele Boccianti



Sta per arrivare: Michael Myers, ancora per la prima volta, ad imperversare sullo schermo. Grazie a Rob Zombie, reduce dei suoi due successi (la Casa dei 1000 corpi e la Casa del diavolo) sulla famiglia di psico-killer coi nomi dei personaggi dei fratelli Marx, la psico-idea sul remake di Halloween diventa realtà. Siete avvertiti.
Halloween: the beginning si configura come un remake personale del capolavoro di Carpenter, in cui il regista metallaro leader degli Zombies dà luce a quelle zone che nel lavoro degli anni ‘70 erano rimaste nell’ombra del non detto e del non rappresentato. Se infatti la seconda metà del film si riallaccia in maniera quasi filologica alla nervatura narrativa originale, è la prima parte quella in cui le soluzioni innovative sono più evidenti. Ovvero proprio le parti della storia che Carpenter aveva non-raccontato come precisa strategia di costruzione dell’icona di Mike "the shape": la sua infanzia. Verrete così introdotti alla famiglia Myers, purulento ricettacolo di piccole e grandi tragedie quotidiane, con patrigno molesto e volgare oltre ogni limite, sorella sboccata un po’ troietta e madre sofferente, spogliarellista per sbarcare il lunario in una casa dove la miseria sembra appiccicata alle pareti. Farete la conoscenza di un ragazzino dalla pelle chiara e dai capelli lunghi e lisci, quasi una versione malsana di un cherubino botticelliano, con l’ossessione per le maschere e il vezzo della tortura sugli animali, che cova rancori abissali nei confronti di un mondo rappresentato da una famiglia che non lo accudisce e non lo ama come dovrebbe. E poi lo vedrete esplodere durante la notte di Halloween, massacrando tutta la famiglia - padre, sorella e di lei ragazzo, con una dovizia di particolari - traumatologici ed ematici- sconosciuta alla pellicola del 1978. Ancora: per la prima volta avremo il privilegio di sbirciare il piccolo mostro durante le sessioni terapeutiche col dottor Loomis (qui un canuto Malcolm McDowell) per renderci conto di come la sua buona volontà e il suo giuramento di Ippocrate a poco servano per raccapezzarsi in un caso così misterioso e sconvolgente di sociopatia infantile. Lo vedremo uccidere un’infermiera con la posateria della clinica, e infine un’intera squadra di poliziotti a mani nude, la sera che scapperà dal manicomio che gli aveva fatto da casa per diciassette anni.

Vedremo tutto ciò e anche di più, perché questo è il motto di Zombie & co.: mostrare tutto e più di tutto, dare all’audience quello che ormai si aspetta, e che è doveroso concedergli; dopotutto sono passati venti anni, ed il cinema - di genere soprattutto - ha in comune col mondo dei videogiochi la necessità di rinnovare con una frequenza sempre più serrata il proprio comparto grafico.
Riprendendo un argomento accennato proprio su queste pagine digitali da Michele Alessandrelli, viene da confermare che un remake scampa l’accusa di superfluità in due casi fondamentalmente: se espande zone della storia originariamente solo accennate, azzardando un nuovo percorso sia narrativo sia figurativo, o se aggiorna le tecniche attraverso cui stringe il patto di sospensione dell’incredulità con il suo pubblico: un aggiornamento che interessa spesso la fase di sceneggiatura non meno che il reparto degli effetti speciali.
Rob Zombie ("di tutto, di più") gioca con Halloween a fare cappotto, forse in cuor suo assicurandosi così di restare intonso dal marchio di remaker superfluo, e compie entrambi i passi col suo the beginning: illumina con uno spot da seimila watt quello che Carpenter aveva solo suggerito e dota il suo "the shape" non solo di un fisico preso in prestito da un ex wrestler, ma lo guarnisce anche col suo ormai famoso corredo di sangue & atrocità sempre in campo, macchiando letteralmente uno degli slasher più candidi (nel senso di meno sanguinolenti) di tutti i tempi.
Ma se sparate seimila watt contro qualsiasi cosa la illuminate tanto a fondo che perderà ogni zona d’ombra, e risulterà definita dalla luce in maniera così totale da perdere ogni sfumatura. E sono le sfumature a dare alla fotografia spessore e profondità. Se Carpenter aveva deciso di non approfondire la psicologia e la backstory di Michael Myers era perché il sottile gioco di equilibri che hanno fatto del suo film un classico e una delle pellicole di paura più redditizie di sempre era tenuto stabile proprio dalla peculiarissima figura del mostro, un bogeyman che era stato capace di svettare sopra il mucchio e trasformarsi in un’icona inossidabile. Ogni cosa era stata studiata, dall’ambientazione ricorrente della notte delle streghe, all’immagine di un bimbo dall’aria innocente e attonita vestito da Pierrot, alla maschera del Capitano Kirk (sic) opportunamente modificata per essere come dirà poi lo stesso Carpenter, significativamente featureless, ossia senza tratti somatici. Quello che veniva fuori in ultima analisi era una raffigurazione del male incarnato potente proprio nella misura in cui era irrisalibile, cognitivamente e quindi scientificamente. Una malvagità strisciante e perfetta di cui la ricorrenza di Halloween sembrava suggerire natali ultra-umani, lovecraftiani.

Il signor Zombie invece, preso dalla sua ansia esibizionista, è caduto in una trappola che il maestro dai capelli bianchi sembrava aver preparato già nel 1978. Non resistendo all’urgenza di vedere tutto e -quindi- farsi vedere tutto, è incappato nel trabocchetto spiegazionista, così ogni adolescente che andrà adesso a vedere Halloween: the beginning farà per la prima volta la conoscenza di Mike Myers lo conoscerà come ragazzino affettivamente deprivato, trascurato, demotivato, irrancidito da un contesto socio-cultural-familiare intrinsecamente psicogeno, dove tutti, dalla prima all’ultima comparsa comunicano sciorinando oscenità e stupidità ad ogni piè sospinto. Dove ogni elemento della scenografia, quella scenica e quella umana, è sordida, sciatta, violenta e volgare. Questa ipercontestualizzazione -oltretutto farina originale di Zombie- se da un lato creerà un’impalcatura per fondare una ragione alle atrocità della notte di Halloween, per quanto banale, dall’altro però finirà col ri-contestualizzare l’icona stessa, "the shape", in maniera esiziale, destabilizzandola dall’interno, riducendola a parabola sociale (e appiattendo la sua figura su quella stereotipica del serial killer), in una parola: laicizzandola.
Il tutto sarà però compensato dal famoso "tocco alla Zombie": realismo da reportage (qui però senza i furori da videoclip dei suoi precedenti film: menomale!), qualche movimento di macchina davvero ben fatto (occhio all’omicidio dei due coniugi Strode) e qualche battuta di sceneggiatura dell’humour che preferisco, quello involontario (occhio alle sedute col dottor Loomis, un luminare della psichiatria infantile). Come non invidiare le nuove leve di futuri Halloween-fans?