the Grudge

Buffy the Ghost Slayer
di Piero D’Ascanio

 
  Id., Usa, 2004
di Takashi Shimizu, con Sarah Michelle Gellar, Jason Behr, Clea Duvall, Bill Pullman


Non siamo convintissimi dell’ultima operazione di quella volpe di Samuel Raimi. L’autore di tante opere che abbiamo amato è rimasto folgorato dalla visione di un horror giapponese dal titolo Ju-On (Rancore), al punto che ha messo in moto la sua Ghost House Pictures per farne un remake americano: pratica nient’affatto nuova né detestabile d’inizio millennio, considerati i risultati ottenuti nel 2002 dal rifacimento del celebre Ringu di Nakata, trasformato dall’insospettabile Gore Verbinski in un’opera davvero degna di menzione.
Detto questo, conseguenti rip-off e inevitabili epigoni a parte - Phone, The Call, The Park e compagnia bella - va detto che Ju-On pianta le sue radici indietro nel tempo, trattandosi di un’idea che il trentaduenne Takashi Shimizu ebbe qualche anno fa, e dalla quale riuscì in un primo tempo a trarre due video per la televisione. Il lancio definitivo il giovane regista lo trovò quando ebbe la possibilità di realizzarne la versione cinematografica - grazie al produttore giapponese dello stesso Ringu - e relativo sequel: ed è qui che entra in gioco Raimi, il quale però decide anche di mantenere il regista dell’originale. Così Shimizu sbarca ad Hollywood.
Una volta visto il film, non risulta difficile comprendere l’innamoramento dell’autore di Spider-Man per l’opera del collega giapponese: la storia di Ju-On è infatti fortemente animata dal topos horror della "Casa", e The Grudge - il titolo del remake è la traduzione letterale dell’originale - deve molto del suo fascino proprio al tema della haunted house. Nel film un’assistente sociale americana (Sarah Michelle Gellar), a Tokio per uno scambio culturale, viene mandata ad accudire un’anziana signora residente in una modesta abitazione di periferia; purtroppo per lei, ad aspettarla c’è l’orrore: il “rancore” del titolo è una maledizione che si è impossessata dalla casa e che colpisce inesorabilmente chiunque vi metta piede; la catena di morte che ne segue, ovviamente, affonda le radici nel passato.
The Grudge è quello che si definisce tecnicamente uno shocker. Shimizu punta a far paura, ma soprattutto punta a non dare mai il tempo allo spettatore di riprendersi dallo spavento appena preso. In funzione di questo, il film non ha una struttura lineare, cosa che avrebbe costretto l’autore e lo sceneggiatore ad alcuni obbligati passaggi narrativi, necessari allo sviluppo di una storia: il regista, invece, sfrutta il facile escamotage dell’improvviso salto temporale per dare corpo ad una fitta serie di climax emotivi innescati dal solo motore narrativo della casa maledetta.
Per quanto potenti essi siano, di solito, dopo un po’, anche lo spettatore più smaliziato ci fa il callo, e, a meno che il congegno non sorprenda per virtù di stile, essi perdono del tutto il loro statuto di picchi emotivi: svuotati di un’adeguata preparazione, non raggiungono altro risultato che non sia quello di provocare un verticale calo d’attenzione dall’altra parte dello schermo. Non crediamo davvero che il buon Takashi abbia “elevato il genere ad un altro livello”, come di lui ebbe a dire l’autore de La Casa, dimenticandosi di come invece lui stesso ci riuscì, nel lontano 1982, elaborando una costruzione spaziale perfetta e servendosi della dialettica esterno/interno come non si faceva dai tempi de La notte dei morti viventi. Tuttavia, si vede che la mano del giovane regista è quantomeno ben allenata: la prima parte del film, fino a che l’intreccio non si slabbra del tutto, tra personaggi che si perdono ed ellissi temporali, regala una bella atmosfera e più di qualche spavento genuino. Ma anche nelle sequenze ad effetto, è un peccato che Shimizu abbia concesso così tanto ad un montaggio veloce e up to date; nel suo Ju-On si era preso più pause e movimenti lunghi, funzionali a caricare l’attesa.
Forse è proprio qui il difetto, e non è stata così una buona idea replicare la stessa mano alla regia: il film ne risente molto anche solo a livello di carica inventiva. La lezione di The Ring poteva essere in questo d’aiuto, associata al ricordo dell’esito negativo di esperimenti analoghi invece a The Grudge (alludiamo al doppio Nightwatch di Ole Bornedal, ’94 e ‘98). Per fortuna che c’è “Buffy” Gellar, sempre con la faccia giusta al posto giusto; ma non si può dire lo stesso di quasi nessuno dei suoi colleghi.
Saremmo severi, ma tant’è. Troppo spesso, nel cinema horror, si mette da parte la storia credendo di poter puntare su altro: è un rischio enorme, perché allora bisogna sfondare con quello che qualcuno chiamò “il cinema puro”. A lui bastarono 45 secondi di film, una colonna sonora per soli archi, 72 posizioni della macchina da presa e una doccia.