Big fish
Riaddomesticati all'evocazione
di Luca Persiani

 
  id, USA, 2003
di Tim Burton, con Ewan McGregor, Albert Finney, Billy Crudup, Jessica Lange, Helena Bonham Carter, Allison Lohman, Steve Buscemi, Danny DeVito


Big fish comincia con un accumulo progressivo di storie, una montagna di favole iperboliche che l'anziano Edward Bloom ha messo a piedistallo della sua esistenza. Si rimane disorientati dal moltiplicarsi degli aneddoti fantastici, tanto che il film sembra non avere una linea narrativa comprensibile, quanto piuttosto una folla di invenzioni accatastate l'una all'altra (similmente all'incipit vorticoso e saturo di personaggi de il Mestiere delle armi, di Ermanno Olmi). Ma mano mano che la narrazione procede, si chiarifica che la storia è una, e, come la vita inventata di Bloom, eterogenea ma unitaria e compiuta.
Tim Burton, devoto cultore della narrazione lineare forte (con almeno la significativa eccezione di Mars Attacks!), getta un guanto di sfida. Se è vero che sempre più difficile sembra far affezionare un pubblico - la cui attenzione è bisognosa di stimoli adrenalinici continui - a storie corpose ed elaborate, che richiedono fiducia nella costruzione del racconto, allora si può provare a raggirarne il pregiudizio di fruizione. Big fish si presenta come un accumulatore di meraviglie old fashion, un ripetitore di invenzioni menzognere da svelare. Quel tanto che basta ad accalappiare il fantomatico giovane pubblico inquieto e dalla scarsa predisposizione a dispositivi narrativi che non presentino un colpo di scena ogni dieci minuti.
Una volta ottenuta una fiducia sempre più rara e preziosa, il film si svela. Anzi non si svela: perché Big fish è la storia di un narratore che neanche davanti alla morte rivela la verità alla base delle sue storie. Un narratore che è lui stesso una storia, una pura creazione di se stesso nella metafora più perfetta ed elegante del mito del self-made man. Ciò che c'è dietro il narratore-storia non è vitale. E' importante ciò che viene evocato: è questa l'essenza, il fascino del racconto, ciò che arriva a comprendere Will, il figlio di Bloom, e che fa anche lo spettatore. Will, un giornalista abituato a rintracciare la verità dentro la storia, scopre un padre la cui storia inventata non è necessario svelare per amarla e sentirla parte di se. Il pubblico, un soggetto mutante, imprecisato e sfuggente di cui sembra percepirsi solo la fame di eccitazione amplificata e distorta dal sovrapporsi selvaggio di molteplici modelli di fruizione (cinema, televisione, videogiochi, internet), viene "riaddomesticato" al racconto classico, scoprendo che una storia non deve essere necessariamente veloce e furiosa per catturare.
Big fish, come Edward Bloom, è dunque in parte un inganno: non è un film che racconta le gesta munchauseniane di un vecchio signore svampito. O la storia dello svelamento di un imbroglione. È, come tutti i film di Burton, un inno alla tolleranza: Will si riavvicina a Ed senza bisogno di sapere la sua vera storia, ma arrivano ad accettare l'uomo per quello che è. Un coacervo eterogeneo di verità esagerate, che contengono una verità non assoluta e definitiva, ma dal cui sentimento di affetto Will riesce finalmente da essere colpito e avvolto grazie alla sua evocazione, attraverso il manto fantastico dei ricordi iperbolici di Ed. Evocazione fatta di emozione pura; evocazione che, quindi, anche se razionalmente non rappresentabile, ha tutti i crismi della più pura e salvifica verità. Will e il pubblico vengono dunque "riaddomesticati" all'emozione, all'innocenza e allo stupore disarmante che può provocare un ampio movimento narrativo. L'esperimento Big fish si ricongiunge così alla tradizione più profonda del racconto, elaborando contemporaneamente uno sforzo assolutamente originale per posizionarsi con successo nel panorama frammentato e caotico della narrazione cinematografica contemporanea.