Era mio padre

La strada verso la perfezione
di Adriano Ercolani


Venezia 59 - 2002
  Road to Perdition, Usa, 2002
di Sam Mendes, con Tom Hanks, Paul Newman, Jude Law, Jennifer Jason Leigh

Per parlare di Road to Perdition avremmo potuto cominciare da dovunque: avremmo potuto affrontare il discorso sul genere cinematografico, oppure azzardare un più rischioso confronto tra il film e la graphic novel da cui è tratto; saremmo potuti partire dalla disputa "generazionale" che lega i tre attori principali; oppure, più semplicemente, avremmo potuto iniziare a tessere le lodi di uno dei più bei lungometraggi presentati al festival di Venezia appena conclusosi. Ed invece partiremo dal regista del film, Sam Mendes, perché è forse lui l'aspetto più sorprendente di questo suo folgorante secondo lungometraggio. Più precisamente però partiremo dal suo precedente, pluripremiato esordio di regista cinematografico, quell'American Beauty (id., 1999) che sinceramente ci aveva fatto storcere il naso, non tanto per la sua indubbia qualità estetica, sia ben chiaro, ma perché lo abbiamo considerato un film troppo sopravvalutato: un'opera sorretta certamente da grandi attori, ma basata su una sceneggiatura più furba e funzionale che veramente preziosa, e soprattutto da una regia che abbiamo trovato sicura ed ispirata, ma a tratti pretenziosamente autoriale, specialmente in alcune sue lentezze incomprensibili. Almeno fino ad ora. Alla luce di questo Road to Perdition ci sono infatti sorti alcuni interrogativi: e se invece fosse proprio questo l'intento di Mendes, e cioè portare avanti un discorso di stilizzazione e di impreziosimento di storie, situazioni e tematiche su cui qualsiasi regista americano potrebbe cimentarsi? Questo nuovo, strepitoso gangster-movie legittima a nostro avviso tale ipotesi: tutto infatti in Road to Perdition è gelidamente e magnificamente perfetto, molto più che American Beauty, e perciò questo intento poetico ed estetico viene fuori in maniera più decisa ed evidente. Dalle scenografie ai costumi, dalle musiche alla stupenda fotografia di Conrad H. Hall: tutto è perfetto in maniera calligrafica, azzeccato fino a rasentare la freddezza. Fin qui, si potrebbe dire, niente di nuovo, anche per un simile prodotto. Già cineasti più grandi di Mendes hanno utilizzato l'assolutezza della resa visiva come metodo di allontanamento, di raggelamento del cinema. La grande novità è che Mendes non vuole questo, ma qualcos'altro: ecco perciò che imprime al lungometraggio un ritmo fortemente rallentato, concentrandosi talmente in profondità sull'effetto di ogni singola inquadratura da renderla una sorta di quadro vivente; se poi a vivere in scena sono personaggi tragici come il killer Michael Sullivan, ecco che questa inquadratura diventa una sorta di lugubre elegia funebre, carica della possanza della tragedia. Perciò Mendes, oltre che aver reso il lungometraggio un qualcosa di bellissimo da gustare con gli occhi, ha a nostro avviso compiuto un lavoro di scavo, di sottrazione del ritmo che non è semplice svuotamento, ma piuttosto di sublime rarefazione, quasi una ricerca di trascendenza. La straordinaria scena dell'assassinio del padre-padrino-boss di Michael Sullivan ne è esempio preciso e calzante: quella che avrebbe dovuto essere una sequenza di azione più classica diventa invece soave rappresentazione di un destino conosciuto ed ineluttabile, che si prospetta alla sua vittima attraverso il buio, la luce di una mitragliatrice che spara, la pioggia che copre ogni cosa, lo sguardo rassegnato di chi conosce sia il proprio dovere che la propria fine. Per raggiungere questo risultato Mendes aveva bisogno, ovviamente e prima di tutto, di basi che fossero un sostrato il più possibile conosciuto al grande pubblico. Ed ecco perciò un genere assolutamente riconoscibile come il gangster-movie; ecco un'ambientazione "scontata" come la Chicago degli anni '30; ecco soprattutto una sceneggiatura agile e ben delineata, ma utile per lasciare alla regia il compito di scrivere i personaggi, la loro storia, il loro valore emotivo e psicologico. Ecco perciò che il regista non si dedica soltanto ad esplicitarci il suo teorema, ma ci (e si) concede anche la fascinazione di personaggi che hanno un loro spessore, interpretati da attori al loro meglio. Di loro restano più gli sguardi che le parole, più i silenzi delle azioni.
Volendo riassumere Road to Perdition è molto di più di un gangster-movie, di un prodotto mainstream hollywoodiano, di un film d'attori, di un film di costume, di un dramma a tinte forti. E' soprattutto il tentativo di un cineasta, molto maturato rispetto all'esordio, verso un cinema fatto di rarefazione, di stilizzazione, di comunicazione attraverso la poeticità dell'immagine. A suo modo, una ricerca di perfezione dell'immagine-cinema.