American beauty

Sit-com del buonismo
di Carolina Parisi

 
  id., Usa, 1999
di Sam Mendes, con Kevin Spacey, Annette Benning, Thora Birch, Mena Suvari, Chris Cooper


L’uomo tetro che ama la bellezza è il criminale più terribile
Vincent Price

Basterebbe questa frase e il giudizio sul film sarebbe risolto. Ma il melodramma American Beauty è appunto un melodramma e propria di questo genere, ibrido figliastro tormentato del cinema, è la capacità di mischiare le carte e di far apparire “oro il ferro”.
Sembrerebbe, in quanto ben confezionata, la storia di un Humbert Humbert di lolitiana memoria, che all’improvviso deraglia risvegliandosi dal torpore etico-culturale che si è creato da solo: Kevin Spacey, frustrato pubblicitario, è stanco. Stanco di abitare nella tipica casa americana il cui mutuo estinguerà (con lui) a sessant’anni; stanco della sua tipica moglie americana, figa isterica sul borderline di un esaurimento; stanco di essere padre della tipica teen-ager tutta amichetta, ostruzionismo familiare ed esistenzialismo da libro pocket.
Ma cosa fa lui per cambiare? Abbandona il lavoro sì, ma con un’ottima buonuscita, ne trova un altro tanto per tirare a campare, compra l’auto dei suoi sogni giovanili, fa palestra per concedersi l’unica possibilità di riuscita scopereccia con l’amichetta della figlia, fuma marijuana con il giovane vicino di casa. Ma cosa fa per cambiare, oltre due tentativi isolati di dialogo con consorte e prole?
Nulla.
La sua vita è a pezzi e lo sa e quella che ci viene somministrata come rivolta è solo l’ultimo singulto prima della fine. La morte, che lo “coglierà” proprio nel momento di massimo sconvolgimento, è in fondo l’unica cosa buona che gli possa capitare. La migliore fine al momento giusto. Come essere umano è finito: ha costruito negli anni questa miserrima vita e i mostri che gli sono intorno, che proprio in quanto mostri gli si ribellano. Consunto luogo comune del cinema. Dove è stato questo martire negli ultimi diciotto anni?
L’altra tacita ribellione la compie il vicino di casa, pusher e filmmaker in nuce, figlio geniale di un padre marine e filonazista e di una madre presente-assente e vittima muta, anche lei della sua scelta d’amore. Questo ragazzo, interpretato dall’eccezionale Wes Bentley, ha un duplice ruolo. Non solo è il controcampo riuscito di Spacey, ma è anche l’unico che prende di petto una situazione già troppo usurata, fino ad arrivare, come è facile pronosticare fin dall’inizio, alla fuga dopo la rottura familiare. Mosca bianca, egli è l’unico (attraverso il ricorso ossessivo alla fedele videocamera) a cogliere la bellezza che trascende il banale sguardo quotidiano a cui tutti gli altri soccombono ignari: per questo può infrangere la gabbia.
Ma perché allora sporcare, anche per un attimo, questo personaggio così puro, perché farci dubitare di lui così gratuitamente quando si deve indovinare l’assassino di Spacey? Ma il sotterfugio del regista c’è e si vede. Si passa in rassegna il bestiario attoriale e si giunge alla conclusione che ad ucciderlo è stato il padre del filmmaker, nazi-gay travestito da duro, ostico e disgustato nei confronti degli omosessuali, invidioso tanto da voler fraintendere il rapporto tra figlio e vicino di casa. La soluzione cade su di lui perché sarebbe stato troppo cinico se fosse stato il figlio, stupido (o forse ovvio) se fosse stata la moglie, tragico ed esasperante se fosse stato parricidio. American Beauty non ha il coraggio necessario per commettere qualcosa di irreparabile e farla accadere a una delle tante “simpatiche” vittime presentateci nel corso del film, non ha la forza di obbligare lo spettatore a ingoiare qualcosa di indigesto.
Il film non dà risposte e non fa domande. E’ una sit-com girata con ironia, neanche pungente ma solamente facile, nel fu set di The Truman Show, dove qualcosa cambiava davvero. Qui i gay sono in accordo con la scadente tappezzeria sociale della Silicon Valley, gentili e politically correct; le studentesse sensuali e femmine fino in fondo non esistono e la povera Mena Suvari è l’ultima puttana-vergine dell’high school americana, vittima anch’ella, sì, ma chi ci crede più?
American Beauty non si inserisce, come qualcuno vorrebbe, nel salutare filone del cinema “cattivo” d’oltreoceano degli anni '90: Happiness di Todd Solondz, Tempesta di ghiaccio di Ang Lee, Nella società degli uomini e Amici e vicini di Neil LaBute, Gummo di Harmony Korine. I media strombazzano che avrebbe fatto prendere coscienza della crisi di un’istituzione (la famiglia) e di una generazione (quella sessantottina o giù di lì): se fosse stato necessario un film come questo la crisi sarebbe più grave di quello che pensavamo.