The Constant Gardener

La moglie del giardiniere
di Piero D’Ascanio

 
  Id., Germania/Gran Bratagna
di Fernando Meirelles, con Ralph Fiennes, Rachel Weisz, Pete Postlethwaite, Danny Huston.


Ci arriva praticamente ora la notizia dell’Oscar come attrice non protagonista vinto dalla Rachel Weisz di The Constant Gardener, e ci sembra un riconoscimento assolutamente meritato. L’appassionata Tessa Quayle uscita dalla penna di John Le Carré – e filtrata dallo script per lo schermo di Jeffrey Caine – è entrata perfettamente nelle corde della giovane attrice, che ne ha saputo restituire adeguatamente l’anima battagliera e il piglio romantico. E’ lei, fuor di dubbio, la prima carta vincente del film di Meirelles.
Il cinquantenne autore brasiliano arriva alla trasposizione del best-seller di Le Carré dopo la fortunata esperienza del bellissimo City of God – firmato insieme a Katia Lund - sua terza regia per il cinema; di quel film, ciò che colpiva subito era proprio lo stile furibondo del “metteur en scene”, con quella folgorante patina documentaria applicata ad una “fiction” dalla struttura eccezionalmente solida. C’era quindi di che sperare in questa sua quarta opera, anche e soprattutto alla luce delle tematiche affrontate dall’avvincente spy-story del romanziere inglese, datata 2001.
La vicenda prende le mosse dal brutale omicidio avvenuto in Kenya della giovane Tessa Quayle, fervida attivista per i diritti civili nonché moglie di un importante funzionario dell’Alto Commissariato Britannico, Justin Quayle. E’ quest’ultimo il “giardiniere” del titolo – ma il suo più che un hobby è una vera filosofia - il quale diviene “tenace” protagonista della storia nel momento in cui si risolve a vederci chiaro nel mistero che si cela dietro la morte della compagna; ed è un mistero dei più fitti e pericolosi, quello che condurrà Quayle alla parte più in ombra dell’Alto Commissariato, e alle sue collusioni con gli “affari sporchi” di una multinazionale farmaceutica.
Si capisce subito come la messa in scena di Meirelles non abbia la minima intenzione di rendersi “invisibile”; anche nei passaggi meno forti del racconto – a sua volta frammentato e rapsodico – il regista trasfigura l’immagine, “sporcandola” con inserti video o al contrario esaltandone l’alto grado compositivo ed estetico. Del resto, già il 16 mm dell’opera precedente la diceva lunga su un autore profondamente consapevole delle infinite possibilità della messa in quadro cinematografica; lì, il colpo d’ala registico stava proprio nell’ibridazione tra una forma che desse tanto all’assoluta immediatezza della visione – una visione spesso destabilizzante, brutale, infernale – quanto alla fluidità di una narrazione non solo ben presente  – ricordiamo che City of God è una sorta di Goodfellas delle favelas – ma corale e polifonica. Questo a testimoniare una volta di più la necessaria scissione tra un approccio di tipo documentario e una sua presupposta a-narratività che è tra i dogmi meno produttivi che il cinema si sia mai (auto)imposto.
In The Constant Gardener, Meirelles rimane fedele a questa idea. A render ancor più adeguata la sua scelta concorre inevitabilmente il setting della vicenda: metà del film è ambientata in zone desertiche, tra paesaggi mozzafiato e desolanti scorci di sottosviluppo urbano, elementi di un profilmico perfetto per esser restituito con macchina a spalla e luci naturali; come al solito, è sempre in esterni, “on location”, che si misura la straordinaria predisposizione del cinema a rendere l’impressione di una realtà presa al volo, quasi “alla sprovvista”.
Spostandoci sui personaggi, abbiamo trovato molto interessante il gioco di ruolo fra i due interpreti principali e il loro passarsi, ad un certo punto, il testimone del protagonista, o comunque di chi “muove” l’azione; Tessa Quayle lo faceva nell’ombra, quasi dietro la scenografia, e ce ne veniva dato conto attraverso il marito, i suoi sospetti, i suoi dubbi; Justin Quayle lo fa in modo classico, portando il racconto a conclusione: la conversione del passivo e mite giardiniere in eroe da spy-story accompagna il film nella sua parte finale, quella più convenzionale, e purtroppo più tirata via. Peccato, perché Meirelles non ci risparmia nemmeno qui momenti di grande cinema – l’attacco al campo di Pete Postlethwaite - segno di un autore comunque ispirato, che avrebbe sicuramente meritato una sceneggiatura più attenta nello sbrogliare l’intrigo.

Nel cuore dello spettatore rimangono il fuoco della gioventù di Tessa Quayle e la sofferenza silenziosa, saggia, misurata del marito, un Ralph Fiennes sempre più raffinato nel cesellare i toni dei suoi personaggi.