Codice: swordfish

Non sono qui per farti un pompino
di Luca Persiani

 
  Swordfish, Usa, 2001
di Dominic Sena, con John Travolta, Hugh Jackman, Halle Berry, Don Cheadle, Sam Shepard


Da qualche tempo il cinema americano si è accorto che esiste nel cuore dell'industria un problema di messa a fuoco. Con aspirazioni ed esiti diversi, La Promessa di Sean Penn, Nella morsa del ragno, di Lee Tamahori e soprattutto Codice: Swordfish di Dominic Sena mettono in scena la perplessità di dover fare il cinema "di genere". Se La Promessa rappresenta un caso a parte in quanto (superficialmente) schematizzabile come "thriller d'autore", sia il film di Tamahori che quello di Sena si chiedono dove siano i limiti dell'intrattenimento legato alle regole del marketing e dove possa iniziare l'esplorazione linguistica. Tamahori e il suo sceneggiatore si rispondono che è necessario sottolineare la pragmatica dei comportamenti dei protagonisti, scelta che serve ai realizzatori per mettere in scena con successo una storia piena di cliché e non sempre precisa nell'illustrazione delle motivazioni dei suoi personaggi. In Codice: Swordfish avviene un'operazione simile ma molto più raffinata, piena di accenti metafilmici non gratuiti e con risvolti "etici" decisamente interessanti. Nella prima scena del film John Travolta discute in monologo con estrema precisione certe scelte di sceneggiatura di Quel pomeriggio di un giorno da cani, confrontandole con quello che il suo personaggio avrebbe fatto per rendere il film più realistico. Naturalmente la tirata è anche una presa di posizione e un manifesto su quello che lo stesso Codice: Swordfish vuole essere. Per il personaggio di Travolta il realismo non è la verosimiglianza delle situazioni, ma la qualità pragmatica delle azioni. Se ho dieci ostaggi e li minaccio di morte dimostrando che faccio sul serio, sto portando alle estreme conseguenze la mia scelta di rapitore. Una scelta che per fare spettacolo non può permettersi debolezze. In altre parole, questo pragmatismo è l'opzione che Sena e i suoi collaboratori sentono necessaria in un thriller terroristico per attirare l'attenzione di un pubblico ormai rotto ad ogni compromesso narrativo, disincantato riguardo ai colpi di scena, abituato a riconoscere i cliché psicologici. La messa a fuoco che invano la mdp cerca sul volto di Travolta è ottenuta poco tempo dopo, quando la nitida morte violentissima di un ostaggio congela con sovrabbondante precisione un attimo del racconto. Il film, con tutta l'ambiguità della violenza cinematografica, urla in faccia allo spettatore: qui i nostri innocenti muoiono "realmente", facciamo sul serio, e facciamo anche spettacolo. Uno spettacolo la cui serietà nei confronti dello spettatore e la cui definizione di realismo consistono, appunto, nel portare rapidamente (la vicenda si svolge in soli quattro giorni) alle inevitabili conseguenze le scelte di vita dei personaggi. Il rispetto di questo obiettivo concede al film di viaggiare sui binari di una messa in scena molto magniloquente e moderna, e, contemporaneamente, di far passare spicchi di cinema d'altri tempi, come alcune battute coattissime o demenziali che sembrano uscite da una sceneggiatura anni '70, nonché di inserire nella narrazione gli inevitabili temi exploitation (la "gratuità" di sesso e violenza) con assoluta naturalezza. Ma Codice: Swordfish arriva a racchiudere in se perfino una "piccola" osservazione sociale molto inquietante sui valori del pensiero americano: l'amore e la dedizione verso il proprio paese possono bastare a giustificare il terrorismo "difensivo"? Il primo piano finale sul volto di Travolta, ambiguamente risoluto e folle ma comunque lucido, sembra chiamare la necessità di una riflessione su quello che è lecito quando si ha il potere di scatenare guerre. Il confine tra buono e cattivo è un po' più labile, il "modello James Bond" mostra tutta la sua poca attualità. I film hollywoodiani devono finire bene, ma ormai anche nei blockbuster non è più così facile definire il concetto di "happy ending".