le Cinque variazioni
Come cade il regista perfetto?
di Stefano Finesi


Venezia 60 - 2003
  de Fem benspaend, Danimarca, 2003
di e con Lars von Trier e Jørgen Leth


Avendo portato egli stesso la cintura di castità del Dogma ed essendosene liberato altrettanto platealmente, Lars von Trier scopre quanto sia molto più divertente imporla agli altri. Soprattutto quando il malcapitato è il maestro Jørgen Leth, autore nel 1967 di un’opera chiave per Lars, L’uomo perfetto: l’obiettivo, a metà strada tra una seduta psicanalitica e una ghignante pratica sado-maso, è quello di fargli girare nuovamente il film, imponendo di volta in volta diverse regole, degli ostacoli che ne mettano alla prova la resistenza registica e umana. Il film si muove quindi su diversi livelli: gli incontri dei due, i cinque cortometraggi prodotti da Leth, i relativi accidentati backstage, i frammenti (meravigliosi) del vecchio L’uomo perfetto. Il risultato, mobile e ironico, è una delle più profonde riflessioni sul cinema degli ultimi anni, la cui necessità si sente soprattutto nell’epoca del trionfo della manipolazione illimitata dell’immagine, delle potenzialità del digitale come panacea di ogni imprevisto e ostacolo espressivo: von Trier tiene invece a ribadire l’importanza di un attrito che nei dettami del Dogma voleva essere innanzitutto un attrito con la realtà irriducibile del profilmico e che in de Fem benspaend (letteralmente: i cinque ostacoli) diventa soprattutto attrito della forma, interdizione stilistica. La creazione artistica non soffre ma vive degli ostacoli, vive nel tentativo dialettico di superarli, o meglio di farli fruttare, trasformandoli in punti di forza: non è un caso, quindi, che, una volta entrato nel gioco, Leth rimanga spiazzato dal terzo ostacolo imposto dal suo discepolo, quello cioè di non averne nessuno. Dei cinque cortometraggi questo risulta inevitabilmente il più debole, il meno coinvolgente e strutturato, rispetto alle superbe trovate dei primi due. Negli ultimi, la scommessa di Lars si fa però più ardita, comportando in pratica la rinuncia di Leth alla cinepresa: un cartone animato (che il discepolo, alla vetta del suo sadismo, commenta allineandolo a quelli di Mtv), e un didascalico collage di spezzoni dei vari backstage con la voce over di Leth che legge un testo di von Trier. Quest’ultimo segna anche il punto d’arrivo umano (e terapeutico) del rapporto dei due e il sostanziale capovolgimento dei ruoli di potere: Leth, vessato e ubbidiente, è colui che è comunque riuscito a trarre forza dall’estenuante esercitazione impostagli, mentre von Trier, non mettendosi in gioco e giudicando freddamente dall’esterno, si ritrova completamente inaridito.
Il regista perfetto, comunque, non è quello che non cade, ma quello capace di raccontare la propria caduta.