la Caduta

Doppia visione
di Emanuele Boccianti e Simona Frigerio

 
  Der Untergang, Germania/Italia/Austria, 2004
di Oliver Hirschbiegel, con Bruno Ganz, Alexandra Maria Lara, Corinna Harfouch, Juliane Köhler, Ulrich Matthes, Thomas Kretschmann e Christian Berkel
 
Minimalia d’Apocalisse
di Emanuele Boccianti

 


"Fin qui tutto bene…
"
da L’Odio, di Matthieu Kassovitz

Un altro Das Experiment, un altro esperimento, per Herr Hirschbiegel, ancora una volta riuscito. Avventurarsi nel territorio della rappresentazione cinematografica della persona di Adolf Hitler avendo alle spalle soltanto due precedenti degni di menzione, toccare un nervo se non scoperto ancora fortemente sensibile, calcare la nota del realismo, dotarsi di una ricostruzione particolareggiata, minuziosa, storicamente impeccabile, senza il filtro smussante dell’affresco metaforico, impressionista (è invece il caso dell’interessante Moloch di Aleksandr Sokurov): questo è stato il tentativo del cineasta tedesco, partito anni or sono dagli allori televisivi del “Commissario Rex” (sic).
L’esperimento: trovare il baricentro di una storia, della Storia, di una nazione, del mondo intero in quegli anni, e regalargli una figurazione cinematografica che potesse sostenere il peso di tale responsabilità. La soluzione: dodici giorni sottoterra.
Lo zoom del narratore stringe vertiginosamente, riduce per esaltare; trova note, suggestioni, inquietudini splendidamente minime, strette, claustrofobiche, e poi suggerisce, più che mostrare, il contesto globale in cui quelle minimalia potevano e dovevano trovare il loro più alto senso e significato. Nel 1945 il cuore del mondo era la Germania, e il cuore della Germania era Berlino, era per l’esattezza un bunker sotto il palazzo della Cancelleria, era una piccola stanza stritolata tra le pareti di cemento con un tavolo, un orologio a pendolo; era un uomo chiuso in una incomprensibile solitudine che fissa un ritratto di Federico II appeso ad una parete, come se fosse l’unico interlocutore a potergli fornire le risposte che cerca, dissipare i dubbi che lo tormentano. Un uomo che aveva, letteralmente, tutto il suo popolo accanto. Fuori, sopra di lui, l’inferno, il caos e la distruzione, la rovina; fuori, il Titanic che affonda mentre sul ponte l’orchestra ancora suona. Il perno del lavoro di Hirschbiegel è proprio una funzionale dialettica dentro-fuori in cui tutte le alternanze sono rispettate, tutti i contrasti esasperati. Moto-immobilità, dramma-farsa, coscienza-incoscienza. Vuoto-pieno. La macchina filmica, che zooma fino ad entrare nella stanza del Führer, e poi ritmicamente stacca facendo capolino oltre la linea della superficie, dipingendo ciò che accade al di sopra, all’esterno, costruisce un dispositivo di rappresentazione di enorme efficacia, mette a nostra disposizione un osservatorio privilegiato il cui fuoco è dentro il cuore stesso del dramma e della Storia. Il centro del buco nero.
Un tragico teatrino di caratteri umani si muovono e si agitano come guitti di “Macbeth” tirati dai fili che fanno capo a questo centro, che ha il cipiglio sprezzante e insieme smarrito di un enorme Bruno Ganz, evidentemente in stato di grazia malgrado le iniziali reticenze ad accettare la parte. E noi vediamo: vediamo un cosmo intero che ha perso il suo baricentro, per l’appunto; vediamo lo sconcerto scandalizzato che si dipinge sul viso degli alti ufficiali del Reich, costretti a sentire le farneticazioni di un condottiero che blatera di panzer e messerschmitt che non esistono se non nella sua mente, e che sono tuttavia chiamati all’immane responsabilità di salvare tutti loro, Führer, generali, popolo.
Hirschbiegel ci regala la possibilità - e questo è di fatto un dono da cineasta generoso - di guardare quegli avvenimenti storici di portata così globale con una lente da entomologo, guardarli con gli occhi dello stato maggiore del Führer, gli occhi dei suoi generali, dei suoi attendenti, e soprattutto della sua segretaria, mentre lui, Hitler, lentamente ma in modo inesorabile, compie la sua tragica parabola di scollamento dalla realtà. L’uomo che doveva guidarli verso un nuovo assetto mondiale, una Germania sovrana. Di nuovo questa dialettica di microcosmo e macrocosmo. Micro: il leader che si ritrae di fronte alla realtà eppure non può fare a meno di sentirla colare giù negli interstizi di quelle pareti di cemento armato. Macro: il popolo che inizia a percepire il passo di quel sogno vacillare, eppure punta i piedi, e piange e implora il suo Führer di guidarlo (come fa in lacrime la sua giovane segretaria bavarese) e aspetta da lui una parola, solo una parola, per poter sentire rifondere dentro nuova forza, nuova illusione di grandezza e di potenza; il popolo che punta i piedi e fa giustiziare un pugno di vecchi “colpevoli di diserzione”, anche quando la sconfitta è ormai certa. Coscienza e incoscienza; dentro-fuori. Aperto-chiuso. Chiuso, come lo spazio del bunker, che sin dall’inizio fotografia e movimenti di camera ci mostrano come un luogo mentale, più che geografico. Pareti stritolanti, soffitti bassi, senza impalcature sul set, che hanno impedito l’uso di luci extradiegetiche. Non c’è aria, non si respira. Non è un bunker, è una cripta.
La caduta del titolo è l’affondo in quella cripta, sotto la superficie della notte berlinese, la psiche che si rifugia nello spazio angusto dei propri sogni e dei propri rituali di autodistruzione. Non è un caso che tanta enfasi venga data nel testo alle liturgie del suicidio di Hitler, da lui studiato con la massima freddezza assieme ai suoi medici. E il suicidio diventa insieme esplicitazione concreta e metafora del termine di questa corsa, anzi, di questa caduta. I suicidi vengono messi in scena uno dopo l’altro, dipinti nella loro individualità, con aliena determinazione, ne contiamo svariati. La moglie di Goebbels che stermina i suoi sei figli somministrando loro veleno nel sonno è oltre il dramma, è una scena di horror puro, perfetto.
Solo il finale ci sbalza fuori da quel buco nero che stava risucchiando tutto, spettatore compreso; ma si tratta di finale costruito su una speranza rubata con l’inganno dai due “collaboratori”, la segretaria Traudl Junge e Peter, entusiasta ragazzo della Gioventù Hitleriana, che possono farla franca (almeno nella finzione del cinema) solamente con l’ipocrisia della disperazione, fingendosi madre e figlio. La vera Traudl Junge, che ha il volto di una concentrata Alexandra Maria Lara, recuperata in fondo ai titoli di coda in una intervista recente, sembra dirci tra le righe che il finale forse serviva per spezzare quel senso di caduta, dotarci di un paracadute, di un respiro nuovo di zecca. Una delle rivincite, forse un privilegio, che si arroga a volte il cinema sulla realtà che vuole rappresentare.

 
La perdita dell’innocenza
di Simona Frigerio

 
Nel lontano luglio 1959, Godard esprimeva il proprio imbarazzo relativamente a Hiroshima mon amour, denunciando una certa facilità nel mostrare scene di orrore, perché in tal modo “si va rapidamente al di là dell’estetica”. Due anni dopo Rivette, in un articolo dedicato al film Kapò, faceva propria la stessa opinione: “Ma prendete l’inquadratura in cui Riva si suicida gettandosi sui reticolati elettrici; l’uomo che a quel punto decide di fare una carrellata in avanti per inquadrare il cadavere dal basso, curando di far coincidere esattamente la mano tesa con un angolo dell’inquadratura, quest’uomo ha diritto soltanto al più profondo disprezzo”.
Usando coscientemente o meno il format dello sceneggiato televisivo (asettico, nitido, ben girato e tranquillizzante - forse perché il regista viene dal piccolo schermo e da una serie cara al grande pubblico quale il “Commissario Rex”), Oliver Hirschbiegel descrive la storia di un vecchietto un po’ irascibile, molto malato e terribilmente gentile con chi gli sta intorno che, invece di battere i pugni sul tavolo, quando si infuria con i propri generali - i quali obiettivamente sembrano un gregge di pecore al macello - manda a morte un’intera popolazione e consiglia ai propri fedeli collaboratori di seguirlo in maniera indolore e altrettanto rapida, al fine di fuggire alle orde barbariche rappresentate dai terribili “rossi”.
Bruno Ganz arriva persino a compiacersi di essere “stato preso dall’ambizione che tutti gli attori conoscono”, ossia quella di “interpretare il ruolo”, dimenticandosi che quando si descrive l’orrore è assolutamente necessario rifarsi al magistero brechtiano, frapporre una distanza tra l’attore e il proprio ruolo, sviluppare un’opposizione dialettica fra il personaggio e il proprio gestus.
Questo film si inserisce perfettamente nella logica imperante della revisione storica, all’interno dell’orgia di documentari che oramai mostrano la quotidianità dell’uomo Adolf Hitler - vegetariano e amante degli animali, contrario al tabagismo e affettuoso con i bambini -, fra le dichiarazioni di chi parifica il confino con la villeggiatura e confonde il saluto fascista - tuttora reato - con il pugno chiuso, cosicché nell’equiparazione di qualsivoglia simbolo si possano finalmente confondere i carnefici con le vittime e le vittime con altrettanti colpevoli.
Il racconto segue la storia di diversi personaggi, molti dei quali impegnati semplicemente a sopravvivere ai bombardamenti o coscienti del proprio dovere e decisi ad attenervisi fino alle estreme conseguenze. I tedeschi sono solamente un popolo-vittima, gli unici a essere considerati colpevoli sono le onnipresenti SS, che nessuna redenzione potrà mai salvare. Come in un solido sceneggiato - e anche le due ore e mezza di durata suggeriscono la programmazione televisiva - seguiamo il bambino vagare nella città in fiamme e alla fine scappare in bicicletta (omaggio forse involontario a quel ragazzino che in Germania anno zero non trovava alcuna salvezza tra le macerie di una nazione distrutta, o al celebre film di De Sica); vediamo due dottori coraggiosi battersi per la vita mentre cercano di curare i soldati straziati segando pezzi umani; ci appassioniamo per le sorti di quella che dovrebbe essere il punto di vista da cui osservare la vicenda, ovvero Traudl Junge, la segretaria di Hitler, e che invece si rivela uno dei tanti personaggi per i quali il pubblico non può astenersi dal tifare, mentre i continui bombardamenti - sottolineati da scelte stilistiche quali un volume particolarmente alto e l’oscillazione della macchina da presa - forzano lo spettatore a prendere le parti dei tedeschi-vittime, decontestualizzando la presa di Berlino.
Il film avrebbe potuto ripercorrere quegli ultimi dodici giorni di guerra attraverso gli occhi del ragazzino, a stretto contatto con la popolazione civile, oppure seguire la caduta del velo di indifferenza e ignoranza che aveva coperto gli occhi di Traudl, provocando un effetto implosivo e lacerante: dalla gloria del Reich, alla prigionia istericamente allegra del bunker, alla coscienza della propria colpa, personale e collettiva.
Il film sceglie invece di usare tutti gli strumenti retorici che possono suscitare commozione affinché il pubblico si identifichi con il carnefice e il carnefice sembri uno di noi, tra Il pianista e Traudl Junge non pare esservi differenza. I titoli di coda, che rammentano aridamente le cifre della guerra e del genocidio sembrano dovute, così come la dichiarazione finale di Traudl Junge: didascalie che spesso gli spettatori nemmeno leggono a risarcimento di due ore e mezzo in cui il nostro cervello ha introiettato l’iconografia della morte dei piccoli Goebbels con i piedini nudi e il volto coperto dal lenzuolo, dei cadaveri di Hitler ed Eva Braun che giacciono in una buca come ebrei dei campi di sterminio e come loro sono bruciati, di un povero vecchio a cui trema una mano, mangia avidamente il proprio ultimo pasto e si accomiata, ringraziando la cuoca.
Quest’uomo ha diritto soltanto al più profondo disprezzo”.

 

back