Birth - Io sono Sean

Provaci ancora, Nicole
di Giulio Frafuso


Venezia 61 - 2004
  Birth, Usa, 2004
di Jonathan Blazer, con Nicole Kidman, Lauren Bacall, Danny Houston, Peter Stormare


Per cominciare, un lungo e suadente piano-sequenza: ripreso all’alto, un uomo inizia a fare jogging in un parco completamente innevato. La macchina da presa segue alle spalle questo novello Superman che, nonostante le intemperie ed il clima ostile, corre beato e robusto attraverso gli alberi imbiancati. La sequenza dura un paio di minuti, splendida per eleganza e distensione del ritmo. Alla fine della corsa, in mezzo ala strada deserta, l’uomo si ferma, aspetta qualche secondo, poi stramazza al suolo stroncato da un infarto. Ebbene, dopo tale grandioso incipit, personalmente stavo gridando al capolavoro: vista la prima scena, mi aspettavo di vedere una commedia nera e sofisticata, una via di mezzo tra il nonsense elaborato dei fratelli Coen e l’effervescenza narrativa delle grandi produzioni classiche della Hollywood anni ‘40 e ‘50. Probabilmente è stata la grande attesa suscitata da questo inizio che mi ha poi fatto vedere il resto del film con un senso di delusione quasi tragico.
Formalmente elegantissimo, prezioso nella resa fotografica e nella ricostruzione di interni scenografici, Birth si rivela un thriller esistenziale che sfocia ben presto in un melodramma di pochissima sostanza, imprigionato in una storia che in realtà non ha alcun peso per sostenere una messa in scena di tale stilizzazione. Alla fine perciò ci si ritrova a vedere un film pieno di belle immagini ma in cui non succede praticamente nulla, ed è impossibile non annoiarsi. Nicole Kidman sfoggia al meglio delle sue possibilità l’austera alterigia di cui è capace, riuscendo a dare al suo personaggio una confusione ed una freddezza di fondo che lo rendono poco credibile; non molto meglio vanno gli attori che le sono di contorno, a partire dal piccolo protagonista imbambolato; e per carità, una volta tanto, non parliamo di scene scandalose all’interno della pellicola soltanto per tentare di lanciare sul mercato un lungometraggio che, prima per sua stessa natura, e poi a causa degli esiti modesti della realizzazione, avrebbe di certo difficoltà ad inserirsi con successo nei meccanismi del box-office – ed infatti in america appena 5 milioni di dollari d’incasso. Jonathan Glazer, autore qualche anno fa dell’interessante Sexy beast, costruisce un’opera formalmente quasi ineccepibile, ma assolutamente priva di una sua dimensione precisa, oseremmo dire di un’anima: ne viene fuori un lavoro asettico ed impalpabile, che non ha la forza di farsi apprezzare neppure per le proprie doti estetiche.
A nostro avviso, dopo i successi di critica e pubblico ottenuti con produzioni “rischiose” come Eyes wide shut, The others o Moulin rouge, Nicole Kidman si sta forse troppo incaponendo nella ricerca di film autoriali in cui poter dimostrare la sua perspicacia gestionale ed il suo gusto di “star intelligente”. In America la provocazione di Dogville non è stata raccolta da nessuno, men che meno il pubblico; se poi i lavori più mainstream della diva sono polpettoni insensati come Ritorno a Cold mountain e La donna perfetta, beh, forse non è il caso di cominciare a rivalutare l’astro luminoso della stella australiana? Ai prossimi film l’ardua sentenza…