Dogville

La lavagna di Grace
di Luca Persiani

 
  id., Danimarca, 2003
di Lars Von Trier, con Nicole Kidman, Lauren Bacall, Jean Marc-Barr, Paul Bettany, James Caan, Jeremy Davies, Ben Gazzara, Philip Baker Hall, Udo Kier, Chloe Sevigny, Stellan Skarsgard


Un film dovrebbe essere un sasso nella scarpa
Lars von Trier

Dogville è la storia di Grace, una "pupa del gangster" degli anni '30 della Grande Depressione che, scappata al boss, si rifugia in una minuscola comunità di montagna in cui tenta di farsi accettare tramite il giovane Tom, intellettuale del luogo che si innamora di lei. Messasi completamente a disposizione della gente semplice di Dogville a cui, in cambio di asilo e protezione, offre ogni tipo di aiuto nella vita quotidiana, riceve inizialmente affetto e accettazione. Poi questi sentimenti si trasformano, quando la tensione cresce perché la donna continua ad essere ricercata dai gangster e dalla polizia che la accusa ingiustamente di un delitto, in arrogante sfruttamento e in repulsione.
Dogville è l'esigenza espressiva di nudità del cinema sperimentale e dogmatico di Lars Von Trier: un set letteralmente schizzato sul pavimento di un teatro di posa che assomiglia ad un'enorme lavagna orizzontale, sulla quale sono indicati i luoghi del paese (oggetti, edifici, strade, flora e fauna), e viene piazzata qualche porta e suppellettile, in un esercizio brechtiano di svelamento della simulazione che deve concentrare l'attenzione, secondo l'esplicito volere di Von Trier, sulle vite dei personaggi. Personaggi alternativamente stagliati su un orizzonte completamente nero o ritagliati su uno totalmente bianco.
Una messa in scena scarnificata che dovrebbe far risaltare il realismo delle dinamiche dei protagonisti, e che è invece il punto di partenza per una teorizzazione di raro infantilismo e disonestà intellettuale. La narrazione si concentra nel precipitarsi finalisticamente verso la dimostrazione di un teorema, ignorando i canoni di fluidità che il racconto realistico presuppone. Il dramma e la tragedia, per essere credibile, deve essere causale: gli eventi devono apparire come generati l'uno dall'altro, non diretti verso un fine. Proprio come accade nella vita. Tradendo questo dogma narrativo, il cineasta intellettuale si pone definitivamente come Dio: il film non ha più come scopo il racconto, ma l'autore stesso e le sue idee "pure". Il sottotesto generato dall'emozione della vita convincentemente simulata dei personaggi del dramma viene esposto e gridato come nuovo oggetto della messa in scena, e tutto si piega a questo scopo. La stilizzazione della messa in scena diventa allora il più grosso camuffamento, il più sottile e subdolo paravento per far passare il direzionamento coatto della storia verso la volontà del suo autore. Inizialmente in modo sottile, e poi sempre più scopertamente, Von Trier fa precipitare Grace nel gorgo della schiavitù, e gli abitanti di Dogville in carnefici. Il coinvolgimento dello spettatore arretra man mano che la vicenda procede e la schiavitù si accentua, perché non scopriamo mai le reali radici dell'incattivimento degli abitanti di Dogville. E' una vera tragedia meccanica che procede per scudisciate punitive e auto-punitive di un'insensatezza puritana scientificamente applicata alla narrazione. Questa mancanza di empatia, la cui assenza non può che essere una precisa volontà dell'altrimenti grande e lucidissimo manipolatore che ha diretto Le onde del destino e Dancer in the dark, può essere chiamata con molti nomi: ironia, sarcasmo, distanza brechtiana. Questi nomi sono accettabili in un'opera cinematografica solo se (e comunque non sempre) promuovono un'alternativa al fascino narrativo che scientemente mettono da parte. E quest'alternativa è la riflessione didattica. L'illustrazione di una tesi, o di una argomentazione a scopo divulgativo. Ricordando che, comunque e al contrario dell'operazione di Dogville, è attraverso la comprensibilità e la condivisione delle emozioni che si fa passare un messaggio o un idea. Con le stesse modalità del giovane Tom, il giovane Lars si propone di esporre un'argomentazione: l'umanità è immonda, nulla è puro, l'apertura sincera dell'individuo alla comunità è uno sbaglio tout court. E che l'incarnazione di questo cancro è la società americana. E' questa la radice della violento svelamento schiavista di Dogville. Dirigere uno sforzo espressivo pieno di tante intense intuizioni di messinscena, attori eccezionali e capacità linguistiche verso una provocazione così puerile e sterile (con picchi di moralismo inarrivabile perfino sui titoli di coda) risulta uno dei più grandi sprechi di talento della storia del cinema recente.
Così come doloroso e forse inutile è lo sforzo di questa recensione - probabilmente non meno dogmatica e definitiva dell'operazione di Lars Von Trier nel supplicare in senso assoluto e all'opposto del regista la necessità narrativa e il rispetto per il racconto - di districare il senso di un film impregnato di un sadismo intellettuale contorto e paranoide (ad esemplificazione di questo si provi a seguire il dialogo finale fra Nicole Kidman e James Caan) di cui si perde completamente la necessità e il significato. Von Trier è nudo come un idiota, lavagna e gessetto per tracciare e cancellare a piacimento un mondo. Ma anche contorto e assoluto come un malato di mente, con un palcoscenico ipocritamente modesto ma in realtà ampio quanto può essere ampio il numero degli schermi cinematografici su cui verrà proiettato. E, come lo schermo di un cinema, senza la necessità di un confronto diretto col pubblico "vivo". La pretesa distanza cinico-ironica "brechtiana" diviene così un ulteriore scalino, da aggiungere a quello dello schermo cinematografico, che allontana il pubblico dalla rappresentazione e fa di Dogville un esperimento indubitabilmente filmico, non confondibile con alcuna esperienza teatrale. Senza però che l'argomentazione abbia la statura per affermare qualcosa di sensato, che giustifichi la chiusura emozionale, la contorta arroganza didattica e la perizia sadica di un cinema falsamente ascetico e inutilmente apocalittico.