Alexander
Il mito, il regista e il buon tiranno
di Francesco Rosetti

 
  id, USA, 2004
di Oliver Stone, con Colin Farrell, Angelina Jolie, Anthony Hopkins


Sull’autore Stone
Si dovesse giudicare una pellicola come Alexander solo dalla quantità di regia, intesa come capacità tecnica di inquadrare, girare, costruire (e smontare) spazi, dilatare e serrare ritmo e tempi narrativi (soprattutto nelle scene d’azione dove la muscolarità registica di Stone può avere libero corso), allora il giudizio su questo singolare kolossal non potrebbe che essere lusinghiero. Se poi si lascia anche perdere l’esotismo, gli elementi di kitsch scenografico che, come parte di un’iconografia condivisa, risultano ineliminabili nella costruzione di uno scenario plausibile (non verosimile o filologicamente corretto) per un occhio spettatoriale e si sfronda il film di tutte le sue articolazioni colossali e spettacolari, allora emerge in filigrana anche un’operazione molto ambiziosa dal punto di vista autoriale sulla biografia come strumento didattico-narrativo nel cinema di Oliver Stone (che si è già cimentato con il genere in Talk Radio, The Doors e Nixon) e sul complesso rapporto tra individuo, storia e società. Eppure il film non riesce a funzionare proprio nel suo versante teorico rivelando un disagio crescente del suo autore nel confrontarsi con la mutazione che la pratica autoriale ha subito in questi anni. Disagio presente almeno da U-turn in poi, ma forse latente in tutto il suo cinema, che ora esplode proprio per la dimensione kolossal di Alexander, dove, come insegnano Spielberg, Lucas o Peter Jackson, gli elementi filosofico-poetici e le ragioni dello spettacolo vanno sottilmente dosate per entrare decentemente in alchimia.

Il genere e l’allegoria
Si sta forse affermando che Stone non sia in grado di convivere con i codici hollywoodiani, anche se non più rigidi come quelli che, esempio classico, negli anni quaranta-cinquanta fecero fuggire Orson Welles da Hollywood? O magari, rovesciando i parametri di giudizio, si sta facendo l’apologia di un regista che non rinuncia alla visibilità della propria visione anche in un film che è la quintessenza del prodotto da Studios e naufraga gloriosamente con la personale versione del suo progetto? Né l’una né l’altra cosa. Nato cinematograficamente negli anni ottanta, Stone è un autore abilissimo a sopravvivere ad Hollywood senza tradire la sua vocazione poetica personale, magari rinunciando al grande exploit commerciale per un successo di scandalo, che anzi, da un certo punto di vista funziona come una specie di marchio di fabbrica, di logo che Stone, da bravo cineasta hollywoodiano, sa apporre sulla sua filmografia. Non ci troviamo di fronte ad un regista “Nouvelle Vague”, impegnato a trascendere con i suoi esperimenti qualsiasi linguaggio e qualsiasi ambito produttivo di riferimento, ma un artista esperto nel sopravvivere nell’industria culturale. Il fatto è che, spinto dalla sua stessa attitudine di notevole retore per immagini(ciò che lo connota presso il pubblico cinefilo, ma non solo), in Alexander Stone è costretto a rendere visibile il suo punto di vista etico-politico, senza potersi abbandonare al genere e senza poterlo decostruire in maniera più sotterranea e sostanziale. Ed ecco che, pur spettacolare e visivamente prezioso, Alexander sembra frenato sia come kolossal sia come opera di Stone. Il problema risiede essenzialmente nella sceneggiatura: se considerassimo Alexander non una biografia storica, per quanto romanzata, ma un peplum (è possibile farlo), cioè un genere di pura invenzione narrativa, paragonabile a Il gladiatore o a saghe come Il signore degli anelli o Guerre stellari, potremmo dire che ci troviamo in un luogo ideale per un’allegoria (anche) della contemporaneità, sotto le mentite spoglie del mito. Abbiamo una lontananza spazio-temporale così notevole (si ricordi l’incipit di Lucas “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana”) da permettere a Stone di restituirci non un’epoca storica totalmente inimmaginabile, ma un universo completamente altro, in cui l’unica filologia possibile è quella nei confronti della mitografia cinematografica hollywoodiana e le sue regole e che, proprio per la sua totale estraneità può diventare paradossalmente specchio dell’oggi. Ad esempio Il gladiatore poteva leggersi come allegoria dello spettacolo hollywoodiano che divora le sue star e orienta ideologicamente un’opinione pubblica distratta, così come il secondo episodio di Guerre stellari, L'attacco dei cloni, riecheggiava la “grande paura” paranoica americana dopo l’undici settembre. Ovviamente non si stanno leggendo queste pellicole soltanto ad un simile livello di allegoria spicciola della cronaca politica contemporanea, si vuole solo far notare come queste letture funzionino per pellicole ambientate in veri e propri universi paralleli. Per Alexander si può dire la stessa cosa e Stone, consapevole di ciò, non rinuncia affatto al versante allegorico, trasformando il condottiero macedone in un colonialista umanitario, animato da una volontà messianica di costruire un impero universale e non solo filogreco o filomacedone. Sogno rivoluzionario o ennesima versione del Sogno americano? Domanda oziosa: più probabilmente ci troviamo di fronte ad una parabola sul rapporto tra messianismo e utopia da un lato e volontà di conservazione e deliro di onnipotenza di un potere dispotico dall’altro. Il problema è che Stone, volendo sovresporre il versante didattico, o se si preferisce retorico, della pellicola rispetto a quello narrativo-spettacolare, finisce per ricorrere eccessivamente a dialoghi didascalici e ai monologhi di Tolomeo-Hopkins che, specie nel finale, indirizzano le idee dello spettatore senza dargli la libertà di elaborare a modo proprio la salutare ambiguità delle immagini. Quello che nelle altre pellicole citate rimaneva sotterraneo e agiva sottilmente nell’inconscio dello spettatore (e le ambiguità narrative diventavano costitutive della condizione umana), qui viene esibito in maniera troppo schematica, dando pure la sensazione di un’irrisolta fascinazione di Stone per l’individualismo estremo della figura del despota.

Alessandro despota illuminato
Se infatti Stone espone in maniera esplicita il suo personaggio come un caso clinico freudiano, segnato dai rapporti conflittuali con le figure genitoriali, nondimeno ne sposa in maniera eccessivamente acritica il progetto politico universalistico, glissando sui limiti e sui metodi usati per metterlo in pratica. Difetto grave quest’ultimo, poiché la pellicola poggia parecchio sul suo versante didascalico e si arriva a sospettare che Stone sia decisamente compiaciuto di mostrare Alessandro come un despota illuminato, disperdendo anche la potenziale complessità del suo discorso su sovranità, storia e progresso (cosa che riusciva molto bene a Zhang Ymou in Hero). Non solo: sottolineando il momento didattico Stone non riesca comunque a legarlo al momento spettacolare, pure presente nel film. Guardando Alexander da questo punto di vista abbiamo due notevoli sequenze di battaglia, a conferma di un talento coreografico nelle scene di massa notevole, ma viene da pensare che il film sia quasi bloccato, monco di alcune sue potenzialità, privo di quel delirio grafico che, paradossalmente, ne avrebbe accentuato la densità concettuale e l’ambiguità. Alla fine si ha la sensazione di una pellicola interessante, ma sbilanciata, sempre sul punto di sbocciare e diventare qualcosa d’altro, ma spuria. Forse, rileggendola alla luce delle successive fatiche registiche di Stone, potrebbe diventare un motivo di fascino.