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Samsung Korea Film Fest 2008

Il cinema coreano che non conosciamo
Primo Piano di Anna Maria Pelella




^ the Show must go on, di Han Jae-rim

Quest’anno a Firenze il calendario della sesta edizione del festival di cinema coreano è stato piuttosto nutrito, ben 30 film e una selezione di cortometraggi. Il tema dominante è quello del disagio esistenziale, con piccole puntate alla commedia e qualche deliziosa variazione del noir di tradizione occidentale. L’obiettivo centrale è quello di mettere l’attenzione su un cinema ricco di proposte, alcune delle quali di gran valore artistico e molte altre di sicuro interesse per lo spettatore che voglia cimentarsi in questa scoperta.

Da segnalare la presenza di Kim Dong-ho direttore del Pusan International Film Festival, il più importante tra gli appuntamenti cinematografici dell’Asia, nell’ambito di un progetto culturale che vede impegnati la Regione Toscana e l’assessorato agli scambi culturali, per portare il cinema italiano in Corea.

Il film d’apertura Radio Star di Jun-ik Lee racconta con amore la storia di un cantante rock sul viale del tramonto, che si ricicla come dj in una radio nei pressi della capitale. Il racconto è tutto giocato sulle note della commedia, con leggeri sprazzi malinconici. La regia è pulita e i personaggi molto ben caratterizzati regalano due ore spensierate, nelle quali piccoli tocchi di genio offrono più di un sorriso. La rock band East River è la versione coreana di una band americana, con tanto di abbigliamento e toni da rocker scalmanati, mentre la cover band dei Beatles che ricrea inconsapevolmente la copertina di Abbey Road risulta davvero irresistibile. Ma il momento più interessante dell’intero racconto è quello del legame che si crea tra il protagonista ed il suo manager. Come molti prima di lui in quel ruolo, il manager farà più da padre, che da promoter al suo rissoso pupillo, e quando interverrà il cinismo tipico di quell’ambiente, nelle vesti di un viscido discografico, le cose si complicheranno ulteriormente.

Due i registi presenti alla manifestazione: Lee Myung-se e Lee Yoon-ki, dei quali sono stati proiettati gran parte dei film.
Lee Myung-se ha portato un’opera che nel complesso deve molto alla rappresentazione; i suoi lavori, alcuni riusciti come M, altri leggermente più immaturi, sono comunque risultati di grande impatto estetico, anche se i contenuti non sempre hanno risposto ai requisiti di coesione interna e di coinvolgimento che si richiedono ad un’opera perchè si definisca interessante.
Mè in realtà l’unico titolo che presenta una coesione nella trama e nel contempo una discreta combinazione tra contenuto e forma. La rappresentazione rarefatta si addice abbastanza al racconto di una storia romantica, e allo stesso momento drammatica, anche se i continui indugi del regista su particolari tecniche tese a rendere maggiormente onirico il racconto, alla lunga allontanano lo spettatore dalla storia e dal suo protagonista. Mentre Nowhere to Hide è l’unico dei suoi film ad essere stato distribuito in Italia, direttamente in Dvd. Si tratta di un noir ipercinetico, che però risente della tendenza del regista all’autocompiacimento per la propria sublime concezione estetica. Il racconto diviene secondario di fronte alla rappresentazione volutamente satura di tecnica, la quale invece di accrescere il valore dell’opera finisce per soffocarne ogni afflato.

Duelist, pur rappresentando un passo avanti rispetto a Nowhere to Hide accentua la frammentarietà del racconto, col risultato di appesantire una storia già di per sè confusa. L’inconfessato amore tra i due protagonisti, rivelato dalla passione che i due mettono nel duellare tra loro, rimane sempre sullo sfondo di quelle che si vorrebbe coreografie coinvolgenti, ma che alla fine lasciano estenuato sia lo spettatore che i contendenti. Lee Yoon-ki invece ha raccontato in This Charming Girl una storia terribile di dolore e gelo interiore tutta al femminile. Risulta difficile dimenticare la protagonista della sua opera prima, che urla vendetta senza emettere suoni e vive una vita di superficie come fosse un’incombenza da sbrigare. Il racconto si fa portatore dei ritmi interiori della protagonista, che ci verrà svelata per gradi, e il cui dramma ci viene raccontato in un rapidissimo flashback, che solo motiverà l’intera portata del suo sistema di difesa. Il finale è praticamente fuori campo, e solo leggermente sussurrata si intravede una possibilità di cambiamento nelle ultime battute, lasciate cadere nell’inquadratura finale quasi ad ispirare più un desiderio nello spettatore che non una reale conclusione positiva della storia.

Ad-Lib Night, opera più recente di Lee Yoon-ki offre un’occasione di riflessione circa l’importanza dei legami familiari. La protagonista accetta di recitare il ruolo della figlia pentita al capezzale di un uomo che sta per morire, e che lei non ha mai visto prima. La solitudine è il tema portante di quest’opera, dal momento che ognuno dei protagonisti vive una sua personale condizione di alienazione che finisce per rendere difficili i rapporti con gli altri. E se nel precedente film il tema della violenza familiare era più centrale e risultava alla fine molto più evidente, in quest’ultimo lavoro il tutto è stemperato a favore di una visione più quotidiana degli abusi e delle piccole cattiverie in seno alla famiglia, che spesso finiscono per essere ignorate, perchè non del tutto evidenti neanche agli occhi di chi le commette. In The Hard Goodbye al centro c’è sempre una donna, e anche qui i rapporti personali sono difficili. Ma in questo caso la direzione della storia è in regressione e la protagonista, che avevamo conosciuto con una figlia e con un compagno, finirà per perdere entrambi a causa della sua inspiegabile, e mai motivata freddezza.

Fantastic Parasuicides è un delizioso film indipendente ad episodi girato da Park Soo-Young, Jo Chang-Ho e Kim Seong-Ho che tratta con ironia il tema dei mancati suicidi.
Tutti gli episodi mantengono un tono ironico e raccontano in maniera originale il difficile tema del suicidio. Nel primo il taglio è fumettistico e citazionista, Gina tenta di buttarsi dal tetto della scuola per aver mancato un esame, e questo sarà solo l’inizio di un’avventura per metà onirica e per l’altra metà frizzante. Anche se derivativo il plot ha un suo personalissimo ritmo che lo rende lieve nella rappresentazione e profondo nei contenuti. Il secondo episodio ha un taglio più minimale che coniuga bene il dramma con i piccoli tocchi surreali di sceneggiatura, col risultato di alleggerire non poco il dilemma di un ex soldato che decide di togliersi la vita, tra polli volanti e delinquenti incapaci. Ma è nel terzo episodio che a mio avviso siamo di fronte alla poesia. Il protagonista, un tenerissimo gay settantenne, compie gli anni ma i suoi amici lo ignorano. Allora lui decide di uccidersi, perchè essere ignorati è come essere morti. In quel mentre mette gli occhi su un giovanotto dal delizioso fondoschiena che sta dritto davanti al binario di un treno in arrivo.
Da quel momento in poi succede di tutto, e i continui cambi di registro coinvolgono lo spettatore e lo sorprendono con una tale freschezza da indurlo a lasciare la sala con un gran sorriso sulle labbra. Non male per una storia che parla di suicidi.

Texture of Skin di Lee Seong-Gang è un lavoro su più livelli, con una struttura circolare e piccoli riferimenti citazionisti lasciati cadere qua e là nel racconto. I protagonisti vivono una passione scandita dal numero ristretto degli incontri, deciso da lei al primo rapporto sessuale. Nel frattempo lui si accorge che la sua casa, e presto anche la sua mente sono abitate dalla precedente inquilina del suo appartamento, una sfortunata ragazza morta in circostanze drammatiche. Il racconto si compirà lentamente e piano piano scopriremo il segreto della morte dell’inquilina precedente e forse il labile legame che le impedisce di liberare la casa e la mente del protagonista. Opera dal linguaggio leggermente ermetico, ma di sicuro impatto dal punto di vista della storia, questo film si avvale di una sottolineatura musicale essenziale e di una recitazione molto ben caratterizzata.

Due le rivelazioni del festival, Beautiful Sunday di Kwang-kyo Jin e Someone Behind You di Oh Ki-hwan. Il primo racconta con grande passione una storia nera nella tradizione del noir di leggera derivazione occidentale. Bellissime la fotografia e la regia di un lavoro ben congegnato, che rivela un interessante capovolgimento di trama negli ultimi minuti, il quale da solo vale il prezzo del biglietto. Mentre la recitazione sensazionale di Park Yong Woo, già visto in Blood Rain regala un buona interpretazione del dolore che lentamente si trasforma in consapevolezza e poi in orrore, senza una sola sbavatura, nè un eccesso espressivo. La compostezza del suo interlocutore, un gelido Nam Gung Min agghiaccia più delle rivelazioni che le sue parole e la sua presenza portano ad un pubblico totalmente impreparato al finale che lo aspetta nella scena successiva.

Someone Behind You condivide con il primo film un capovolgimento di trama che motiva l’intero racconto, anch’esso disvelato negli ultimi minuti, ma più che al noir si rifà decisamente all’horror. La storia è semplice all’apparenza ma, a mano a mano si complica di elementi gran parte dei quali suggeriti già nei primi fotogrammi, ma assolutamente impossibili da cogliere se non a posteriori. La costruzione della tensione è sottile ma inesorabile, e quando alla fine tutti i tasselli troveranno una collocazione il gelo sarà l’unica reazione possibile per lo stranito spettatore.
La regia accurata e a tratti volutamente caotica crea una situazione di instabilità percettiva che, complice una buona fotografia, lascia trapelare più che vedere chiaramente l’orrore il quale erompe solo nelle scene più splatter che, come uniche note di colore, fanno da contraltare all’oscurità che permea gran parte dell’azione.

Driving With My Wife’s Lover di Kim Tai-sik è una bella commedia incentrata su due uomini, la cui storia si incrocia nel momento in cui la moglie del primo diviene l’amante del secondo. Il marito tradito decide di incontrare il rivale, e poichè questi conduce un taxi, si mette in viaggio con lui, senza rivelargli la sua identità. La storia è raccontata con molto umorismo, i due uomini risultano molto nella parte e in taluni momenti del tutto irresistibili. Il tono da commedia rende divertente il racconto, anche nei momenti più malinconici, e la vera lezione che si evince dalla visione del film sarà che alla fine ascoltare l’altro è l’unico vero modo di definire l’amore. Le fantasie di omicidio, le piccole cattiverie o le ripicche non solo inaridiscono chi le compie più di chi le riceve, ma la soddisfazione momentanea ed il vantaggio che sembrano dare sull’altro, in realtà non sono altro che un rinviare i conti che bisogna sempre fare coi sentimenti, propri ed altrui.

The Show Must Go On di Han Jae-rim è un meritatissimo secondo posto. Si tratta di una storia dolcemara incentrata su un uomo che si guadagna da vivere con attività illegali e che per questo finisce per perdere di vista la sua famiglia. Il protagonista, un convincente Kang-ho Song, è perfetto nell’espressione dell’impossibilità a cambiar vita e nel contempo a rassegnarsi al costo che questa gli impone. I siparietti comici alleggeriscono una sceneggiatura pesante, ma mai gratuita, mentre la regia offre una generosa visuale del travaglio interiore esteso a disagio familiare. Seconda regia di Jae-rim Han, già autore dell’interessante Rules of Dating, questo The Show Must Go On si fa ricordare per l’ottima combinazione di una buona regia ed un interessante racconto che non diviene mai banale, nonostante la semplicità dei personaggi e delle loro storie del tutto ordinarie. Il film ha vinto due Blue Dragon Film Award, il più importante riconoscimento cinematografico coreano, uno come miglior film del 2007 e l’altro per l’interpretazione di Kang-ho Song (Memories of Murder, The Host, Mr. Vendetta) che si conferma uno dei più versatili attori coreani contemporanei.

Take Care of My Cat di Jeong Jae-eun è una storia al femminile di aspirazioni mancate e dolorose rinunce esistenziali. Le protagoniste brillano per ingenuità ed assoluta pulizia in quella che ci viene raccontata senza fronzoli come una società dura e competitiva. Le cinque ragazze dovranno fare i conti ciascuna con le proprie illusioni e se non tutte riusciranno a cambiar vita, di certo nessuna rinuncerà al tentativo. Bello nei contenuti quanto nella rappresentazione, questo film narra ancora una volta del disagio sociale di un paese in continua ascesa economica, ma che tende ad emulare il modello di crescita americano. Come in molti lavori di matrice sociale, anche questo non sfugge al sottotesto di amarezza di una generazione di ragazzi lasciati in balia di un concetto di competizione alieno alla cultura da cui provengono e del tutto impreparati ad affrontarne le conseguenze sul piano personale.

Beyond the Years
è il centesimo film della produzione di Im Kwon Taek, già presentato a Venezia.
La storia deve molto alle tradizioni musicali coreane, ed è incentrata sulle vicissitudini di un ragazzo ed una ragazza cresciuti insieme da un padre adottivo molto severo. Lei diverrà una famosa cantante di pansori, canzone tradizionale coreana, ma perderà la vista a causa delle idee del padre sullo studio dell’arte. Mentre lui, andato via di casa per incomprensioni col padre adottivo, andrà in guerra prima e al ritorno si dedicherà a cercare la sorella. Centesimo film della vasta produzione di questo regista che si è dedicato al racconto delle tradizioni e delle contraddizioni del suo paese, si tratta di un lavoro molto evocativo che, come sempre nel regista coreano, racconta storie poetiche sullo sfondo di un paese complesso e poco conosciuto, a volte con modi inquietantemente nazionalisti.

A Love di Kwang Kyung-taek sarebbe potuto essere un candidato perfetto alla vittoria per la sesta edizione del festival, nel caso di assenza di opere più originali. In primo luogo perchè coniuga bene il melò coreano con una rappresentazione in stile americano. Poi la regia accurata, il budget alto, e la discreta recitazione, completano il quadro di un’opera pronta per l’esportazione. La storia è semplice, ed anche un tantino derivativa. Si parte da un classico colpo di fulmine, che porterà i due protagonisti ad amarsi a dispetto delle vicissitudini che la vita gli riserverà, e si finisce in pieno in una storia raccontata con uno stile da film d’azione, tra gangster, coltellate e vendette. Tutto è rappresentato con mano ferma e molto autoriale, ma la modalità di espressione se da un lato rende facilmente fruibile l’opera anche ad un pubblico occidentale, perde in originalità conferendo al tutto un sapore di già visto.

Two Faces of My Girlfriend di Lee Seok-hoon è una commedia che scivola, solo nei fotogrammi finali, in un dramma dalle caratteristiche leggermente psicoanalitiche. La protagonista, una bravissima Jeong Ryeo-won è affetta da un particolare disturbo della personalità: ha un alter ego che viene fuori solo quando beve. La ragazza ha due nomi e due personalità opposte, ma quello che alla fine scoprirà il suo nuovo fidanzato è più di quello che solitamente ci si aspetta da una commedia. Girato con stile minimale, il film incrocia bene la commedia con le parti drammatiche, e rende coeso un racconto difficile, basato su una concezione un pò ingenua, ma pur sempre affascinante, dello sdoppiamento di personalità.

Nella sezione Indipendent Korea A Shark di Kim Dong-Hyun è una piacevole sorpresa. Girato con stile asciutto e leggermente documentaristico, racconta delle vicissitudini di quattro persone in una torrida giornata d’estate. Le storie si intrecciano e non di tutte vedremo la reale evoluzione, in un racconto molto realistico e leggermente ellittico, che regala momenti di grossa umanità ed altri di una comicità che mira ad alleggerire il peso di una narrazione dura, ma mai pesante. Opera prima di un regista con buone potenzialità, conserva la freschezza dei primi lavori e nello stesso momento mantiene un’originalità che lascia presagire la possibilità di interessanti futuri lavori.

Chiudono The Railroad di Park Heung-Sik, il film più bello dell’intera rassegna, indiscusso primo premio, già presentato a Torino dove ha vinto il premio per il miglior attore e il Fipresci e Breath l’ultimo lavoro di Kim Ki duk, uscito nelle sale anche da noi.

Il primo racconta una bella storia di incomunicabilità quotidiana. I due protagonisti vivono ciascuno una storia sentimentale fallimentare e, come metafora del binario morto su cui trascinano stancamente le loro vite, finiranno per incontrarsi al terminal di una stazione da cui non partiranno treni per tutta la notte. I due cercheranno riparo in un albergo vicino e, mentendo ciascuno sulla propria vita, imbastiranno una sorta di recita che andrà avanti per le prime ore della notte. Parte della maschera cadrà ad un certo punto, complice l’angoscia e lo spazio ristretto, ma non abbastanza per un reale incontro e i due si saluteranno la mattina dopo senza essersi mai realmente incontrati. Unica nota di speranza è nel finale che ci mostra il frutto di quella notte: un libro scritto su quell’esperienza dalla protagonista che la aiuterà ad uscire dalla precarietà lavorativa.

Breath è l’opera più recente di Kim Ki duk. Si tratta di un lavoro stilisticamente perfetto che mette in scena la storia di una donna frustrata la quale decide di far visita ad un detenuto in attesa dell’esecuzione, che aveva cercato di suicidarsi. Il regista stesso si sceglie la parte del direttore del carcere che, riflesso in un vetro del monitor attraverso il quale spia i due, scandisce i tempi degli incontri, in una metafora evidente del ruolo di demiurgo che si riserva chi filma una storia. Deliziosa opera di meta cinema, perde leggermente in freschezza rispetto alle precedenti opere del regista, il quale tende sempre più alla perfezione stilistica, raggiunta in verità già da tempo, ma di recente minata dalla perdita del calore che contraddistigue i suoi primi lavori. Certo appare difficile decidere cosa privilegiare tra opere di grossa efficacia emotiva come Primavera, estate, autunno inverno e ancora primavera, o la Samaritana, e i più recenti lavori, come il precedente Time e quest’ultimo Breath, meno caldi ma senz’altro tecnicamente perfetti. Si tratta sempre e comunque di opere dall’evidente valore artistico e dalla grossa capacità espressiva, motivo per cui il regista, ormai maestro riconosciuto anche da noi, qualsiasi decisione decida di prendere, finirà per accontentare comunque sempre più di quelli che alla fine apprezzeranno meno i suoi esercizi di perfezione.