Primavera, estate, autunno, inverno...
e ancora primavera

Demoni e redenzione
di Stefano Finesi

 
  Bom, Yeo-reum, Ga-eul, Gyeo-ul, geu-ri-go Bom, Corea del Sud, 2003
di Kim Ki-duk, con Oh Young-soo, Kim Young-min, Seo Jae-kyung, Ha Yeo-jin


Il fatto che Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera sia il primo film del regista coreano a essere distribuito in Italia, già potrebbe leggersi come piccolo indizio di un’avvenuta svolta all’interno di un cinema personalissimo e dal curriculum festivaliero di tutto rispetto. Vero è pure che, sbollita la febbre hongkonghese, la Corea del Sud da diversi anni si è trasformata in un punto di riferimento delle attenzioni occidentali verso l’estremo oriente, come confermerebbe appieno il premio a Cannes per Old Boy e la sua chiacchierata compatibilità pulp-adolescenziale con il presidente della giuria: da qui, però, a fare breccia nella sonnacchiosa distribuzione italiana ce ne passa e la sensazione che Kim Ki-duk abbia nel frattempo perso/guadagnato qualcosa (a seconda dei punti di vista) rispetto all’opera precedente è palpabilissima.
La storia di un monaco e delle tappe della sua vita, raccontate in limpido parallelo con l’alternarsi delle stagioni ha già di per sé l’appetibilità di una parabola buddista un po’ a buon mercato, tuttavia è proprio questa chiarezza strutturale a offrire al cinema del regista una disciplina nuova, capace di contenerne meglio gli eccessi: quell’ironia strampalata che affiora volentieri nei momenti più inaspettati, gli accessi improvvisi di violenza e le impennate melodrammatiche, la crudeltà come pratica rituale e quasi contemplativa, il tutto si stempera in una narrazione che abbandona ogni carattere ondivago e si affida a un respiro ciclico di solida prevedibilità. L’impressione, insomma, è quella di trovarsi davanti a un tentativo di autocontrollo il cui fine è quello probabilmente di una maggiore possibilità comunicativa: “Rapisco la gente mainstream nel mio spazio – ha dichiarato a proposito Kim Ki-duk - , mi presento come un essere umano e chiedo loro di stringermi la mano. Così non hanno più paura delle mie posizioni”. Questo allargamento ecumenico, o meglio, questo consapevole spirito missionario verso le terre selvatiche del mainstream, esclude necessariamente sia la salutare sgradevolezza dei film precedenti, sia la loro vitale goffaggine formale, impressa dalla mano di un cineasta autodidatta e non-cinefilo (per una volta…), intento innanzitutto a mettere a parte gli spettatori di un palpitante teatro della crudeltà.
Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera rimane però un film di grande fascino, dotato di una forza inusuale delle immagini, e anche laddove possono infastidire simmetrie fin troppo scoperte (il rinnovato rapporto tra vecchio e giovane monaco, il contrappasso purificatorio della pietra, la conquista della pace interiore attraverso il furore del sangue e della lussuria), alcune trovate sono folgoranti: il ruolo fisico della scrittura, strumento di redenzione quando il giovane monaco si libera dai fantasmi del rimorso intagliando i caratteri dipinti dal maestro, strumento dell’estremo rifiuto del mondo da parte del vecchio, che si toglie la vita chiudendosi letteralmente il volto con le pagine scritte; l’episodio della morte della giovane madre con il viso coperto, anche lei inghiottita dal lago ghiacciato; il nuovo, piccolo monaco che nel finale si avventa allegramente su una tartaruga, sfogando quell’istinto primitivo alla violenza che gia contiene in nuce il dolore futuro della purificazione.
Kim Ki-duk ha compiuto in fondo un percorso di redenzione che lo assimila al protagonista, depurando il suo cinema dal rancore e dalla violenza più urticanti e raggiungendo un equilibrio che ha metabolizzato quegli istinti fino ad ottenerne un controllo formale rigoroso e consapevole: il fatto che sia lui stesso a interpretare infine la parte del monaco maturo, mentre compone un ritratto del suo giovanissimo allievo, sovrappone letteralmente le due traiettorie. A noi rimane il rimpianto di un cinema meno strutturato ma dall’impatto (inassimilabile, furibondo) di tutt’altra portata: forse è semplice spocchia cinefila, o forse dobbiamo ancora fare i conti con i nostri demoni personali.