Udine Far East Film Festival 7 - 2005

Orientato a crescere
di Diego Barboni

 
  ^ Yesterday once more, di Johnny To

Giunto alla settima edizione, il Far East Film Festival si conferma come una delle più importanti vetrine, a livello internazionale, del cinema dell’estremo oriente, e lo fa, anzi, ogni anno con maggior forza. Nel tentativo (peraltro riuscito) di fornire una gamma sempre più vasta di suggestioni ed un quadro sempre più ampio della varietà delle culture raccolte sotto il generico titolo di Far East, il programma ha visto un fiorire di eventi e di retrospettive collaterali, arrivando anche a sdoppiarsi, fisicamente, in due: la storica struttura del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, e quella nuova del Visionario, che ha ospitato, con due film al giorno, la retrospettiva sulla casa di produzione giapponese Nikkatsu Action, nonché la mostra di fumetti “Mangashi - Il fumetto in Giappone da Toba Sojo a Internet”, e la proiezione-evento di One and Eight (Yige he Bage), del cinese Zhang Junzhao.
Il teatro nuovo a sua volta ha ospitato, oltre al concorso, lo speciale focus-on sul cineasta giapponese Nakahara Shun (con i film The Cherry Orchard (Sakura no Sono) e Ichigo. Chips. (Ichigo no Kalera)), le retrospettive su tre grandi direttori della fotografia, con due film ciascuno, nonché la mostra fotografica di un quarto operatore, l’hongkonghese Jupiter Wong. Se l’enorme quantità di opere presenti dunque, spazianti dagli anni cinquanta ad oggi, dalla Cina alla Malesia, dalle Filippine al Giappone, e suddivise come detto in diverse sezioni, rischia di lasciare lo spettatore confuso rendendo difficili bilanci complessivi, nondimeno è possibile trarre significative impressioni considerando le singole cinematografie.

Hong Kong e Cina: convergenze parallele
Salta all’occhio, anzitutto, una certa flessione del cinema di Hong Kong. Quella che è senza dubbio una delle cinematografie più ricche, quantitativamente e qualitativamente, dell’estremo oriente, si è trovata quest’anno non solo priva di rappresentanza all’interno delle varie sezioni speciali (ciò è tutto sommato normale: altri anni, ad esempio con le retrospettive su registi come John Woo e Chor Yuen, ne aveva ampiamente goduto), ma anche di titoli veramente importanti come erano stati, negli anni precedenti, PTU di Johnnie To o i tre Infernal Affairs di Andy Lau e Alan Mak. Anche quest’anno, ciononostante, non sono mancati alcuni titoli interessanti come i due film di Pang Ho-Cheung: AV (storia di un gruppo di ragazzi che, pur di fare sesso, organizzano la produzione di un film porno amatoriale, chiamando addirittura una pornostar dal Giappone), e Beyond Our Ken (Gung Chu Fook Chau Gei) (che narra dell’amicizia di due donne accomunate da un uomo, il Ken del titolo, che gioca con entrambe). Interessante anche il cupissimo noir One Nite in Mongkok (Wong Gok Hak Yau), che parte da una guerra tra gang giovanili per poi sviluppare una storia di violenza e solitudine ambientata in una delle zone più popolate del mondo, con sicari, poliziotti e prostitute per protagonisti come da tradizione; mentre più apertamente commerciale, e più debole rispetto ai migliori esiti del regista, appare Yesterday Once More (Lung Fung Dau) di Johnnie To, commedia romantica che ha per protagonisti due ladri, e interpretata dall’ormai onnipresente divo Andy Lau.
E proprio la presenza dello stesso Lau in un film cinese, un’altra commedia con al centro una coppia di ladri (lo stucchevole A World Without Thieves (Tianxia Wu Zei) di Feng Xiaogang, campione di incassi nel capodanno cinese), è spia dell’inizio di una nuova epoca nei rapporti tra le due cinematografie. Sancita e incoraggiata da leggi e accordi commerciali, la collaborazione sempre più costante tra le due cinematografie sembra destinata a modificarne in parte i connotati peculiari, o almeno a smussarne le differenze. Per ora, in ogni caso, si è sicuramente solo all’inizio di quello che sarà certo un lungo processo, poiché di differenze ce ne sono ancora molte e proprio quest’anno, alla lieve flessione del cinema di Hong Kong, ha fatto da contraltare un grande successo del cinema cinese presente al festival, ed in particolare di un uomo, Gu Changwei. Omaggiato, infatti, come direttore della fotografia, con la proiezione dei due classici Sorgo rosso e Addio mia concubina, Changwei ha anche vinto il premio del pubblico con l’opera prima Peacock (Kongque) (in cui fra l’altro la fotografia è affidata ad un altro direttore): il film, nella migliore tradizione cinese, mescola storie personali e storia collettiva ambientando le vicende di tre fratelli adolescenti sullo sfondo dei primi anni ottanta, dopo la fine della rivoluzione culturale. A dire del successo del cinema cinese in questa edizione, il piazzamento di altri due film cinesi (peraltro, diretti da due donne) tra le primissime posizioni dell’indice di gradimento: si tratta di Letter from an Unknown Woman (Yige Mosheng Nüren de Laixin) di Xu Jinglei, trasposizione della novella di Stefan Zweig già portata sullo schermo da Max Ophuls nel 1948, e di White Gardenia, melodramma storico ambientato negli anni trenta e quaranta, a dire ancora, se ce ne fosse bisogno, dell’interesse del cinema cinese a confrontarsi con la propria storia. Ma in questo senso, una menzione a parte la merita la proiezione speciale di One and Eight (Yige he Bage) (1984) di Zhang Junzhao, con Zhang Yimou come direttore della fotografia; un film che, oltre a confrontarsi con la storia, ne fa anche parte: innovativo sul piano stilistico e audace nella presentazione di personaggi fuori dalla comune iconografia socialista, il film ebbe seri problemi con la censura, che prima lo ritirò e in seguito lo rimise in circolazione in una versione ampiamente rimaneggiata, ma diede l’avvio al fenomeno della Quinta Generazione e segnò una pietra miliare nel cinema cinese.

Il Giappone della Nikkatsu
Il cinema di altri tempi è invece ciò che più rimane impresso della presenza giapponese al Far East di quest’anno. Se nell’omaggio al direttore della fotografia Tamra Masaki, infatti, è stato possibile apprezzare il classico Lady Snowblood (Syurayukihime) (1973), storia di una vendetta al femminile e opera alla quale il Tarantino di Kill Bill vol.1 sembra dovere molto, c’è da dire che la retrospettiva dedicata alla Nikkatsu Action si è assolutamente imposta, per quantità (sedici film proiettati) e qualità, all’attenzione del pubblico. Nata nei primi decenni del ventesimo secolo, questa casa di produzione ebbe il suo periodo d’oro a cavallo tra gli anni cinquanta ed i sessanta, ed i suoi due registi più rilevanti in Suzuki Seijun (di cui non era presente alcun film: si riteneva comprensibilmente che non avesse bisogno di essere riscoperto) e in Masuda Toshio, presente al festival con cinque film. Caratterizzati da uno stile sobrio (ma non privo di invenzioni registiche) e da una visione dolente del mondo, i film di Masuda sono spesso incentrati su solitari sicari della Yakuza, innamorati di una donna, ansiosi di mettersi alle spalle quella vita e quel mondo ma impossibilitati a farlo da meccanismi più grandi di loro: esemplare in questo senso risulta l’ottimo Red Quay (Akai Hatoba) (1958), così come il suo semi-remake, The Velvet Hustler (Kurenai no Nagareboshi) (1967).
Sebbene tale tipo di storie fosse frequente, però, la produzione della Nikkatsu non si limitò a queste sole, accogliendo anche suggestioni provenienti dall’estero e mostrando uno spiccato interesse a mantenersi al passo coi tempi: è così che trovano spazio, all’interno di tale produzione, anche film come Black Tight Killers (Ore ni Sawaru to Abunai Ze) (1966), sorta di pastiche che mette insieme echi di James Bond, di un film come The Black Rose di Chor Yuen, visto l’anno scorso al festival, arte pop e un certo qual erotismo piuttosto audace per i tempi, oppure il quasi russmeyeriano Stray Cat Rock - Sex Hunter (Nora Neko Rock - Sex Hunter) (1970), che vede scontrarsi i leader di due bande di motociclisti, un uomo crudele e misantropo e una donna violenta e dal fisico prorompente. Ma la vera rivelazione è stato senza dubbio Season of Heat (Kyonetsu no Kisetsu,1960), di Kurahara Kureyoshi: sorta di “On the road” giapponese, il film narra le gesta di tre ragazzi appena usciti di prigione, due ladruncoli amanti del jazz e una prostituta. Con uno stile inquieto, verrebbe da dire jazzistico, che rimanda a Ombre di Cassavetes ma anche a Fino all’ultimo respiro di Godard (due pellicole uscite negli stessi anni e con la stessa, forte carica antiborghese), il film presenta senza patetismi né compiacimenti le alterne vicende di questi tre personaggi marginali, svolgendo anche, contemporaneamente, un discorso non banale sull’arte povera e l’arte colta: a parere di chi scrive, un vero capolavoro.
Tra industria e cinema d’autore: la produzione sudcoreana
Se il cinema giapponese ha mostrato quest’anno il meglio di sé con il cinema di genere della Nikkatsu, il cinema sudcoreano, invece, l’ultima delle quattro principali cinematografie presenti al Far East, è forse quello che ha mostrato una maggiore maturazione complessiva. Da anni ormai al centro dell’attenzione grazie all’opera di autori come Kim Ki-Duk, Im Kwon-Taek o Lee Chang-Dong, il cinema coreano si segnala anche a mio avviso per una produzione di cinema anche prettamente commerciale, ma di ottima qualità e fatto con grande intelligenza (cosa che ad esempio in Italia ci sogniamo). Così, mentre commedie come Everybody Has Secrets (Naguna bimileun itta) o film di arti marziali come l’ottimo, spassosissimo Arahan (Arahan - Jangpung daejakjeon), non sembrano proporsi molto di più che intrattenere lo spettatore, pur facendolo con una perizia ad altri sconosciuta, opere come A Family (Gajok) ma soprattutto Peppermint Candy (Bakha Satana) di Lee Chang-Dong e Memories of Murder (Salin eui Chueok) di Bong Joon-Ho - questi ultimi proiettati come omaggio al loro direttore della fotografia Kim Hyung-Koo -, mostrano (o confermano) personalità autoriali notevoli. Il cinema sudcoreano sembra aver raggiunto così un interessante equilibrio tra una produzione commerciale, che può vantarsi di costituire una delle poche valide alternative (ovviamente per i coreani) a quella hollywoodiana, ed una non trascurabile presenza di cineasti di grande valore.

Un festival nel cinema
Per quanto riguarda le altre cinematografie, che dire? Il numero dei film era talmente esiguo (e la possibilità di vederli tutti, per chi scrive, ridotta) da rendere difficili considerazioni di carattere generale. Una menzione, però, la merita il Mr Suave di Joyce Bernal, che conferma una spiccata vena ironica e demenziale del cinema filippino: è pensando all’espressione buffonesca di Vhong Navarro che, con movenze da Jim Carrey filippino, interpreta questo esilarante seduttore “incompleto”, ed alla simpatia della minuta regista, “così modesta - ci informa il catalogo - che non ha nemmeno a disposizione un proprio curriculum o una filmografia dei suoi lavori”, che terminiamo questo resoconto su un festival che con grande competenza continua a portare, come recita lo slogan, a oriente, e che ormai si è scavato un posto di rilievo all’interno di questo tipo di manifestazioni. Tanto da venire addirittura citato in uno dei momenti più divertenti di AV di Pang Ho-Cheung, e da lasciare traccia di sé, a vario titolo, in due film come Beyond our Ken, sempre di Pang Ho-Cheung, e Yesterday Once More, di Johnnie To, a conferma della simpatia ormai acquisita presso i registi orientali.