il Festival del Cinema Ritrovato XVII - 2003

Il muto e il CinemaScope
di Massimiliano Rossi

 
  ^ Il covo dei contrabbandieri, di Fritz Lang

Giunto ormai alla sua XVII edizione, il festival bolognese del Cinema Ritrovato si conferma un’esperienza straordinaria e unica in Italia, affondando le sue radici nel culto della conservazione e del restauro di pellicole di ogni genere e formato. L’offerta che ci ha presentato quest’anno la Cineteca del Comune di Bologna, guida e mente della manifestazione, si è rivelata una vera festa per gli occhi, coronata principalmente dalla meravigliosa qualità delle copie proiettate (la maggior parte nuove di stampa) e dall’eccellente attrezzatura tecnica e architettonica che ci hanno offerto le accoglienti sale di proiezione. A partire dalle 2 nuove sale Lumière, gestite dalla Cineteca comunale, destinate principalmente al cinema muto, fino ad arrivare al maestoso cinema Arlecchino, dove si sono potute apprezzare le magniloquenze dei film in CinemaScope, passando attraverso le proiezioni gratuite in Piazza Maggiore, che con la sua suggestiva cornice, ha catturato l’attenzione di pubblico di ogni genere.
Sono state, dunque, proprio queste proiezioni all’aperto che hanno in qualche modo rappresentato il “salotto” dell’intera manifestazione essendo l’unica, o quasi, proposta filmica della fascia serale e quindi divenendo un irrinunciabile punto d’incontro per addetti ai lavori, collezionisti privati e comuni spettatori. Qui in piazza abbiamo potuto gustarci, tra gli altri, un classico intramontabile come The Hustler (Lo spaccone, 1961) di Robert Rossen, in una nuova copia restaurata proveniente dalla Fox americana, ma quello che più ci ha stupito della programmazione dell’arena bolognese è stato senza dubbio l’impatto che ci ha lasciato la visione di un John Ford ritrovato e restaurato dalla Archives Françaises du Film – CNC: si tratta di Bucking Broadway, del 1917, ed è uno dei rari western di Ford sopravvissuti del periodo del muto, primo lungometraggio restaurato dagli Archives du Film interamente in digitale. Francamente, l’effetto visivo che il procedimento digitale ci ha fornito conferma tutti i dubbi che questa tecnica suscita in ogni filologo e appassionato della celluloide (l’immagine, nonostante un’eccellente stampa, era marcata da una evidentissima pixelizzazione), ma quando si parla di John Ford si parla di cinema puro, e quando ad accompagnare le irriverenti cavalcate di Harry Carey c’è un pianista come l’inglese Neil Brand, allora il cinema si trasforma in magia.
Il cinema muto, comunque, con tutta la sua eloquenza, lo abbiamo abbondantemente potuto apprezzare soprattutto nella nuovissima sala Auguste Lumière, dotata di tutte le accortezze tecniche per proiettare questo tipo di film, come i proiettori con variatori di velocità e mascherini 1,33 muti: certo, alcuni cambi macchina hanno sporcato la visione dei film con molte partenze fuori quadro, ma la mole elevatissima di lavoro che hanno sostenuto gli operatori di cabina, ha reso abbondantemente giustificabile qualche imperfezione. La carrellata di proposte del muto in questa settimana è stata infatti ampissima e l’apprezzamento maggiore va decisamente alla sezione dedicata a Mauritz Stiller, poiché del grande regista svedese abbiamo potuto ammirare, oltre al recupero di alcuni frammenti tratti dalle sue opere ormai scomparse, uno dei suoi film che si pensava fosse ormai perduto per sempre come Hamnarem, del 1915. Una copia nitrato imbibita del film è stata ritrovata nel 2001 in Germania alla Stiftung Deutsche Kinemathec di Berlino e, come se non bastasse, la copia vista durante il festival era appena provenuta dal laboratorio di sviluppo e stampa: inutile dire che si è trattato di un momento epocale che ha riportato sullo schermo la più antica opera di Stiller completa che sia giunta ai giorni nostri. Altro passo significativo della programmazione all’ Auguste Lumière è stato il restauro che la Cinémathèque Française ha effettuato nel 2003 per Koenigsmark (1923), di Léonce Perret. Al di là dell’interesse filmico in senso stretto, si è trattato di un esempio emblematico dei vari metodi di colorazione dell’immagine nel periodo del muto: si passa dalla tecnica dell’imbibizione a quella dell’au pochoir (entrambe presenti sui supporti dell’epoca da cui è stato possibile effettuare il restauro), fino ad arrivare al contemporaneo procedimento desmet, che consente di accentuare i contrasti nell’immagine stampata. Quest’ultimo si è potuto notare anche nella proiezione in piazza della copia restaurata de Il carretto fantasma di Sjostrom. Qualche critica va doverosamente rivolta, invece, alla sezione dedicata a Clarece Brown, che ci ha proposto un malaugurato spettacolo di ben 3 videoproiezioni.
Il cinema muto, tuttavia, con le sue molteplici sezioni, i suoi suoni dal vivo (su tutti, gli accompagnamenti del “nostro” Antonio Coppola) e il suo alone nostalgico, non ha rappresentato l’unica attrattiva forte del festival. Un fondamentale richiamo alla storia e alla tecnica del cinema della “grande visione” è stato l’omaggio ai 50 anni del CinemaScope, con un programma ricchissimo: da The Robe (La tunica) di Henry Koster, a Lola Montes di Max Ophuls, passando attraverso Moonfleet (Il covo dei contrabbandieri) di Fritz Lang fino ad arrivare ai due veri eventi ospitati dal cinema Arlecchino, ossia la “grandeur version” di The Big Trail (Il grande sentiero), 1930 di Raoul Walsh e la versione in rapporto di proiezione originale (2:55,1) con suono quadrifonico magnetico di I Died a Thousand Times (Tutto finì alle 6), 1955 di Stuart Heisler. Si tratta,nel primo caso, di una versione del film girata in 70mm, disanamorfizzata e ridotta su normale pellicola 35mm, ottenendo così una immagine in proiezione con un rapporto pari a 1:2,13; nel secondo caso, invece, si è trattato di una proiezione di una copia del film originale, vale a dire con 4 piste magnetiche a canali separati (sinistro – centrale – destro - surround) al posto della classica colonna sonora ottica, e con una perforazione ridotta per consentire da un lato l’applicazione delle piste magnetiche e dall’altro una superficie di impressionamento della pellicola tale da consentire un formato di proiezione pari a 1:2,55 (formato ancora più allungato rispetto all’1:2,35 del CinemaScope moderno). Un’occasione rara, dunque, per apprezzare i film nella loro integrità originaria, supportati da proiezioni di eccellente qualità, se si pensa che la perforazione ridotta comporta non pochi problemi tecnici per il proiezionista, inevitabilmente costretto ad adattare i rocchetti del proiettore.
Ma il festival del Cinema Ritrovato non è stato solo questo: convegni sul CinemaScope e sui relativi brevetti, sul colore nelle fasi di stampa (l’Eastmancolor e il Technicolor), dimostrazioni sulle differenze del suono quadrifonico magnetico e quello dello stesso film rimissato in Dolby Digital per l’edizione ristampata, una fiera del libro e tanti altri film, per un totale di 140 opere, a cui in questa sede è impossibile dare rilievo. Insomma, quel che basta per conferire a Bologna, dopo l’ennesima prova di serietà e professionalità, la targa di vera capitale del cinema italiano.