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lo Spaccone
The Hustler, Usa, 1961
di Robert Rossen, con Paul Newman, Piper Laurie, George C. Scott, Jackie Gleason

Real Losers
cult di Adriano Ercolani



L’inizio degli anni ‘60 segna ad Hollywood un momento di transizione tutto sommato fondamentale, in quanto determina il tramonto del cosiddetto sistema “classico”: per essere più precisi, se le forme estetiche maggiormente consolidate resisteranno per quasi tutto il decennio, la metamorfosi che interessa invece questo preciso momento riguarda principalmente i contenuti. Anche se in passato autori sardonici e non ottusamente schierati nel sistema avevano proposto opere di rottura tematica, è solo con l’arrivo dei ’60 che tali pellicole iniziano ad imporsi all’attenzione dell’establishment., che ne accetta la portata più “difficile” e la introietta in qualche modo dentro il proprio sistema produttivo. Basta pensare che proprio nel 1960 l’Oscar al miglior film va a l'Appartamento di Billy Wilder, commedia sarcastica che ha come temi portanti l’adulterio e l’arrivismo sociale più squallido.
Tale meccanismo di inserimento delle ambiguità esistenti nella società americana viene però definitivamente elaborata a nostro avviso ne lo Spaccone di Robert Rossen, pellicola che per la prima volta tratteggia la figura sfaccettata del “loser” inserendola però in un contesto decisamente non buonista né tanto meno pacificatorio - come in passato ad esempio era successo per un personaggio potenzialmente eversivo come James Dean. Partiamo dalla novità dei personaggi: la storia d’amore che funge da scheletro alla trama si spiega tra un “gambler” del gioco d’azzardo ed una “beggar” metropolitana, zoppa ed alcolizzata; la natura e le pulsioni autodistruttive delle figure interpretate da Newman e dalla Laurie non vengono edulcorate dalla sceneggiatura, ma al contrario diventano il tratto fondamentale del film, a cui Rossen adegua praticamente ogni elemento della messa in scena. Ed ecco che le scenografie diventano lo specchio dell’anima rovinata di Eddie Felson e Sarah Packard, non soltanto povere ma anche sporche, degradate; così vale anche per i costumi ed i setting, che oltre tutto si fanno invece eleganti ma freddissimi quando i personaggi si spostano nei palazzi e nelle camere d’albergo in cui è abituato a “lavorare” Bert, colui che ha assaggiato la pasta di cui è fatto Eddie e la sfrutterà per fare soldi. A soccombere alla legge di Bert, che poi in filigrana è quella del mercato capitalista americano, non è Eddie, perché lui è abile a giocare a biliardo, quindi ha un valore, ma la sfortunata Sarah, la quale ha l’unico torto di essere preziosa soltanto a livello emotivo, e per giunta proprio per colui per il quale il lato emotivo rappresenta il primo ostacolo per la propria realizzazione di giocatore e truffatore. lo Spaccone è il primo lungometraggio in cui il realismo delle situazioni, il background ed il vissuto delle figure in scena diventa il vero protagonista, ed incide anche a livello estetico: la poetica del “loser”, fino ad allora a suo modo comunque eroico e tutto sommato consolatorio, viene ribaltata in un finale straordinario in cui l’affermazione della superiorità di Felson su Minnesota Fats si trasforma in totale ammissione della sua sconfitta, dal momento che il fattore etico ed umano è stato annichilito proprio dalla ricerca dissennata di quel successo che adesso è tristemente inutile.
A livello meramente cinematografico lo Spaccone possiede però anche un’altra grandiosa idea di regia: Rossen scinde l’estetica della pellicola in due momenti fortemente distinti; della parte più contenuta e realistica - anche dal punto di vista della scrittura filmica, contenuta e classicamente “invisibile” - volta a raccontare lo stato opaco delle figure abbiamo già parlato. Quello che rimane invece sono le scene di biliardo, dove il regista opta invece per un messa in scena virtuosamente movimentata e sapientemente ritmata da un montaggio che si fa invasivo, evidente, serrato. I carrelli in avanti che accompagnano molti dei colpi di Newman, e di conseguenza la sua interpretazione accaldata, sono quanto di più efficace il linguaggio cinematografico americano ha saputo consegnarci in quel periodo: non a caso Scorsese li ha riproposti con devota ed acuta lungimiranza nel suo sequel il Colore dei soldi.
lo Spaccone è un lungometraggio epocale, e non solo per l’ormai mitica interpretazione di Paul Newman - ma non va dimenticata anche la prova maiuscola di un attore indimenticato come George C. Scott. Quello che rende il film di Rossen un momento di vera cesura all’interno di un modus operandi consolidato è una scelta prima ideologica e conseguentemente estetica: raccontare i disagi reali di una classe sociale bassa, spesso in difficoltà, che si barcamena nei sottoboschi urbani talmente avvilita da non riuscire più nemmeno a tentare la carta del riscatto. Eddie Felson e Sarah Packard sono due sbandati che pagheranno per la loro condizione, immortalati in un’opera cinematografica che li ha mostrati nella loro natura senza l’artificiosità della drammatizzazione o, peggio ancora, la demagogia della redenzione.