Robert Altman

Il movimento come matrice di realtà
di Adriano Ercolani e Piero D’Ascanio


Robert Altman
 
Tra i grandi “vecchi” del cinema americano contemporaneo - Clint Eastwood, Michael Mann, Martin Scorsese - Robert Altman è probabilmente quello in cui il retaggio del Nuovo Cinema degli anni Settanta è più vivo e operativo, seppur elaborato nel corso di una carriera ormai più che quarantennale. Veterano assoluto dell’epoca della rinascita hollywoodiana, formatosi con i serial televisivi - la sua generazione è ancora precedente a quella dei “movie brats” universitari, quali Spielberg e Coppola - l’autore di Nashville stupisce ancora oggi per la modernità del suo gesto registico, come testimonia il suo ultimo capolavoro, quel Radio America che poteva fare solo lui, e che sa tanto di opera finale - non glielo auguriamo! - di una carriera ricca di pietre miliari del cinema moderno. Fra tutte - già citato il suo capolavoro del 1975 - ci sembra fondamentale ricordare M.A.S.H., inarrivabile satira antimilitarista; i Compari, western tardo e nevoso, formalmente pregevolissimo; il Lungo addio, commovente elegia del Noir classico; un Matrimonio e Gosford Park, lucide e spietate analisi della borghesia e della nobiltà, dispiegate su una “ronde” di decine e decine di personaggi; oltre ovviamente agli “short cuts” di America oggi, “summa” dell’ultimo periodo dell’autore, geniale applicazione cinematografica del minimalismo carveriano.
L’idea di base di questo approfondimento - che poi è ciò che ci colpisce di più, a tutt’oggi, della pratica registica del Nostro - è quello che Altman riesce a fare muovendo la macchina da presa: è il nucleo concettuale del suo essere “metteur en scene”, ed è qualcosa che probabilmente, ancora oggi, caratterizza il suo lavoro in modo pressoché esclusivo. Per padronanza semantica e coerenza stilistica, il suo uso del movimento di macchina è un fatto unico nel panorama moderno americano.
Nell’estensione più ampia del termine girare un’inquadratura in movimento significa, in particolar modo per gli stilemi del cinema americano, “invadere” l’universo creato davanti ad essa: che si tratti di una panoramica, di una macchina a mano, di un dolly o quant’altro, tale scelta immancabilmente si pone come deciso intervento stilistico sulla messa in scena, atto a sottolinearne o accentuarne la specifica portata significazionale. Questo ovviamente dovrebbe sempre avvenire quando un regista ha coscienza ed un’idea coerentemente sviluppata del proprio lavoro: purtroppo capita sovente di vedere vorticosi movimenti di m.d.p. che poco o nulla hanno a che fare con quanto si sta raccontando.
Scegliere di adottare un certo tipo di cinema vuol dire quindi apportare un intervento preciso e soprattutto invasivo alla messa in scena: il cineasta sottolinea con un’accentuazione propria della materia filmica ciò che gli viene messo a disposizione di volta in volta dal testo, dagli attori, dal setting.
L’equazione di cinema che ne scaturisce è dunque la seguente: movimento = rafforzamento del binomio senso/profilmico. I più virtuosi come Brian De Palma, Martin Scorsese e molti altri ne hanno fatto una matrice personale, che sviluppata in piena coerenza li ha resi - nel bene e nel male - ciò che sono.
Nel caso della poetica cinematografica di Robert Altman la tesi sopra esposta viene radicalmente e clamorosamente smentita; basta vedere il suo ultimo Radio America per realizzare immediatamente che il movimento della m.d.p. serve per lo scopo contrario, e cioè per neutralizzare il più possibile l’intervento del regista sulla sua messa in scena: lungo il percorso di un carrello Altman interviene addirittura sul montaggio del suo film, che in questo modo torna ad essere interno all’immagine, quindi “invisibile” anche se assolutamente presente: dentro una singola inquadratura viene costruito un universo semantico polifonico e sfaccettato, in cui lo spettatore viene indirizzato ma non costretto dall’autore a seguire una storia, una linea, un accenno tra tutti quelli che la macchina gli presenta. L’occhio di Altman non guida mai lo spettatore, ma lo rende attivo, invitandolo a scegliere. Spesso nelle sue opere i personaggi in campo sono moltissimi, e parlano e si muovono restituendoci una dose di realismo enormemente maggiore che in altri lungometraggi: pensiamo a film che ne hanno improntato lo stile, come ad esempioil Lungo addio o Nashville, oppure ad altri che in tempi più recenti ne hanno rinverdito i fasti, come America oggi o Gosford Park. In tali lavori l’eleganza primaria della regia sta puntualmente nel lasciare spazio alla rappresentazione, costruita non intorno ad un centro preciso ma su una variabile controllatissima di voci, di suoni, di punti di vista. Nei piano-sequanza più famosi del cinema di Altman la focalizzazione di chi guarda viene continuamente sposata da un punto ad un altro dell’inquadratura, spesso addirittura verso poli sonori che si trovano al di fuori di essa. Lo sviluppo interno di questa architettura dell’immagine è probabilmente il discorso estetico più preciso portato avanti dal Nostro nella sua carriera: con il passare delle opere il regista ha quindi sviluppato un senso del movimento cinematografico indirizzato a servirlo in questo senso, e mai mirato ad enfatizzarne le capacità virtuosistiche; a ben guardare, la volontà di costruzione di un montaggio interno all’inquadratura è probabilmente l’ultimo e più importante retaggio estetico che il cinema americano cosiddetto “classico” ha lasciato agli autori contemporanei, ed Altman ha evidentemente fatto suo questo patrimonio inserendolo nella propria poetica cinematografica.
Il suo cinema si muove dunque su un binario stilistico volto ad una sorta di eleganza controllata, che indirizza la messa in scena verso il realismo invece che verso un tipo di cinema più propriamente “presente” a livello grammaticale. Insieme ad altri grandi “anziani” del cinema americano come Clint Eastwood o Michael Mann, anche il regista di M.A.S.H. sta probabilmente riproponendo al pubblico, ovviamente reinterpretandolo secondo la propria personale elaborazione, l’ultimo retaggio rimasto da un’epoca di cinema in cui ciò che succedeva all’interno dell’inquadratura costituiva la particella fondamentale e primigenia dell’universo filmico.