Magnolia

Frammenti di identità perdute
di Stefano Finesi

 
  id., Usa, 1999
di Paul Thomas Anderson, con Julianne Moore, William H. Macy, John C. Reilly, Tom Cruise, Philip Baker Hall, Philip Seymour Hoffman, Jason Robards, Alfred Molina, Melora Walters

Aronne stese la mano sulle acque d’Egitto e le rane uscirono e coprirono il paese d’Egitto. (Esodo 8 ; 2)

Non è un caso.
Non è un caso se un ragazzo si getta dalla cima di un palazzo e la madre che sta litigando con il marito imbraccia il fucile e fa partire inavvertitamente un colpo che sfonda la finestra e colpisce il figlio in volo che si sarebbe salvato sul tendone dell’ultimo piano e invece è morto. Anche perché è stato lui stesso a caricare di nascosto il fucile. Non può essere una coincidenza.
La spiegazione sta in tre ore di pellicola, dense e ridondanti, gioco smisurato di un enfant terribile finalmente libero di baloccarsi a piacimento con storie e personaggi, di farli dimenare all’infinito, di farli cantare, di fargli anche piovere le rane in testa. Ma veramente tutto può accadere?

Cosa sanno i bambini?
John ha perso il padre e non ha i soldi per il funerale della madre. Seduto per terra davanti a un bar incontra Sydney, che gli offre un caffè e un’occasione: seguirlo per casinò a imparare a giocare per vivere. Un paio di anni dopo i due si ritrovano coppia stabile e Syd affianca al suo protetto anche la giovane Clementine, facendoli fuggire quando si cacciano in un brutto pasticcio. Syd è per John il padre che ha perduto, ma è stato proprio Sid un tempo a ucciderglielo: le sue cure per il ragazzo sono frutto del senso di colpa.
Dirk è il nome di un secondo battesimo, celebrato nella piscina di Jack: il ragazzo fuggito di casa dopo una lite furibonda con la madre, ha trovato la sua famiglia d’adozione in una piccola combriccola del porno della San Fernando Valley che lo eleva a proprio idolo. Amber, la pornostar a cui è stato negato l’affidamento del proprio bambino, gli fa da madre, Kurt e Rollergirl sono degli ottimi fratello e sorella, Jack è un padre burbero ma comprensivo, capace, dopo la rottura, di riaccoglierlo in casa.
Frank ha inventato il grottesco “Seduci e distruggi”, ma la sua storia è quella di un ragazzo abbandonato dal padre al capezzale della madre morente; Claudia dal padre è stata molestata sessualmente quando era piccola ed ha chiuso i rapporti con i genitori vivendo come una sbandata; i due geni del quiz, quello in carica - Stanley - e l’ex-campione degli anni ‘60 poi folgorato da un fulmine - Donnie - sono stati sfruttati come fenomeni da baraccone dalle rispettive famiglie.
Il cinema di Paul Thomas Anderson, dopo soli tre film, sembra già arroccato su un tema ricorrente con tale urgenza da imporsi come punto di partenza di qualsiasi analisi: la disgregazione della famiglia.
I suoi protagonisti sono figli perduti alla ricerca di nuovi contesti affettivi, di una guida paterna che possa dare una direzione alla loro vita. Ma se in Sydney e in Boogie Nights la ricostruzione di un’identità dopo l’abbandono è possibile, attraverso momenti sostitutivi di aggregazione, in Magnolia i protagonisti restano prigionieri nel limbo di un’isterica solitudine: a John e Dirk in fondo una nuova famiglia viene quasi offerta, anche se da vivere faticosamente, per gli altri rimane un’illusione dolorosa. In Boogie Nights, poi, gli ultimi scampoli di controcultura sembrano allestire una casa comune agli emarginati; ma se già gli anni ottanta rappresentano un travagliato momento di transizione, esemplificato nel mondo del porno dal passaggio dalla pellicola al video, gli anni ’90 di Magnolia vengono a costituire la degenerazione ultima, sia nei termini di una perdita generalizzata di momenti comunitari alternativi forti, sia nell’approdo al marasma eterogeneo e dispersivo della televisione.
Questa fa da catalizzatore per la varie storie del film, ma non può funzionare come luogo di coesione dove rinvenire una nuova identità solidale, perché in essa sembra che ogni conflitto sia esaltato e potenziato nel suo coefficiente di disgregazione. Non è un caso che la forma chiave del film, a cui ricondurne l’intera struttura drammatica, sia il quiz televisivo “What do kids know”, che spettacolarizza il contrasto tra adulti e bambini (come il “Seduci e Distruggi” teorizza quello tra i sessi); né è un caso che la trasmissione sia condotta e prodotta rispettivamente dai due padri-padroni Jimmy Gathor e Earl Cartridge.
Quella che va in scena è una battaglia il cui esito è inevitabilmente sfavorevole per i piccoli, anche quando a combatterla è il geniale Stanley, che canta la “Carmen” in francese, ricorda il nome completo di Molière, ma non sa trattenere la pipì. Alla radice della sconfitta dei bambini è la loro intrinseca debolezza fisica e la loro naturale incapacità di imporre il proprio punto di vista e le proprie necessità agli adulti; la pipì incontrollata è la materializzazione infantile del disagio derivante da un’identità imposta, fondata su competizione e esibizionismo.
Il gioco del question & answer, che il quiz esemplifica perfettamente, si ripete sotto diverse forme anche per gli altri figli perduti: Frank è costretto a subire l’intervista televisiva che lo mette alle corde, Claudia è corteggiata da Jim in un lunghissimo e sfinente interrogatorio. Essere interrogati e testati sulle proprie conoscenze o passati al setaccio alla ricerca di menzogne, sembra la condizione base del ruolo di figlio e della sua inferiorità.

Rispettate il cazzo!
Frank sembra iniziare dove aveva finito Dirk Diggler: “Rispettate il cazzo!” proclama, mentre l’altro, nell’ultima straordinaria sequenza di Boogie Nights sfoderava i suoi trenta centimetri davanti allo specchio per avere un riscontro precario ma possibile della propria identità: la sua fallocrazia aveva qualcosa di più vitalistico, oltre il fatto che il fallo era il totem intorno al quale si radunava l’intera comunità; quella di Frank, più teorizzata che praticata, è di più evidente origine psicanalitica e compensa il trauma dell’abbandono del padre e quello che potremmo chiamare il complesso del capezzale. Costretto da solo al capezzale della madre morente, Frank infine dovrà assistere anche il padre annientato da un tumore, così come l’ultima sua inquadratura ce lo mostra imboccare l’ospedale per andare a confortare Linda, ricoverata dopo il tentato suicidio. Al paradossale proseguimento della violenza contro la donna esercitata dal padre, si aggiunge così il confronto vertiginoso con la morte: entrambi stanno alla base della personalità fittizia che Frank illude se stesso di possedere, aggredendo spasmodicamente la vita nell’ impossibilità di accedere a un sistema diverso di valori e a un’identità nuova. (agli antipodi della sua esaltazione fallica, peraltro, c’è Donnie, incapace di sedurre il barman di cui è innamorato e aggrappato allo stratagemma infantile dell’apparecchio con cui emulare il suo idolo; e c’è Jim, che quando conosce Claudia lascia inavvertitamente cadere il manganello, quando ottiene l’appuntamento perde addirittura la pistola, in un evidente gioco simbolico che ne mima l’imbarazzo sessuale e la ritrosia a sedurre e tanto meno a distruggere).
Claudia invece ha una reazione ai traumi infantili che non porta all’autoglorificazione come per Frank, ma al desiderio di autoannientamento e di mortificazione del proprio corpo, abbandonato alla droga e a un inutile sesso occasionale. Il personaggio di Claudia appare più degli altri chiuso in un isolamento assoluto e restio a qualsiasi tentativo di ricostruzione interiore. A differenza di Frank la sua redenzione sarà nel ricevere, e non nell’assistere, qualcuno al capezzale, insieme alla promessa di un nuovo amore; al contrario di Frank non potrà fino alla fine riconciliarsi con il padre.

Exodus 8, 2
Nel finale di Magnolia le ferite sembrano cicatrizzare. Nuove possibilità affettive compaiono all’orizzonte (l’amore tra Jim e Claudia), assistiamo a un riavvicinamento da parte di Frank e Stanley con i rispettivi padri.
Ma nel frattempo abbiamo assistito nientemeno che a una pioggia di rane, grasse rane che vengono giù a migliaia dal cielo. La frattura è evidente e al di là di richiami apocalittici di vario genere (quello cinematografico più immediato è al terremoto di America Oggi), la pioggia di rane suona come dichiarazione di resa davanti alla saturazione di storie senza sbocchi: è proprio essa infatti a imporsi come evento comunitario capace di riallacciare le storie, offrendo un momento catartico collettivo. E’ vero che tutto può accadere, ma ormai è lontano il morbido pianosequenza finale che intrecciava il destino di tutti i protagonisti di Boogie Nights in una ritrovata armonia: resta solo l’assurdità di una canzone sussurrata separatamente da ognuno (sull’orlo rischiosissimo del ridicolo), l’assurdità delle rane dal cielo. Sono eventi fantastici o, ancora peggio, che rompono la finzione scenica: comunque drammaticamente arbitrari. Solo così Magnolia può ricomporre un esito di speranza, solo così Claudia riesce, alla fine della lunga e incredibile inquadratura di chiusura, a guardare finalmente in macchina.
Rimane tuttavia il senso di una lacerazione irreversibile o, per ritornare a una delle sequenze d’apertura da noi citate all’inizio, rimane il fatto che il giovane mancato suicida è stato ucciso dalla madre con il fucile che aveva caricato lui stesso. Il dramma fondamentale di questo conflitto genitori-figli è nel fatto che quegli stessi padri sono malati e moribondi, sono deboli, come se una nemesi si fosse abbattuta su di loro, ma doppiamente si sia accanita sui loro figli, che rimangono vittime non solo delle malvagità subite dai padri ma anche della loro perdita, perché paradossalmente ogni figlio non riesce ad odiare liberamente il proprio genitore ed è questa la fonte maggiore di tormento. L’odio con cui si carica il fucile da puntare ai propri padri in realtà uccide noi stessi.