le Colline hanno gli occhi

Propaggini della modernità cinematografica
di Andrea Favazzo

 
  The Hills Have Eyes, Usa, 1977
di Wes Craven, con Susan Lanier, Robert Houston, Martin Speer, Dee Wallace, Michael Berryman

Il soggetto
Le colline hanno gli occhi
racconta le disavventure di una famiglia Wasp in viaggio di piacere per la California. Per via di un guasto all’automobile, i turisti sono costretti a fermarsi in una zona desertica circondata da colline. La loro roulotte viene presa d’assalto da un gruppo di esseri selvaggi dediti al cannibalismo.

Il film
Il film horror è sempre viaggio nella carne e nella mente, viaggio all’interno delle paure; e questo Le colline hanno gli occhi si presenta come uno degli ultimi viaggi (la cui ultima tappa è proprio l’estremo, lontano avamposto della civiltà) del gore in un’America quasi disabitata, prossima a nuovi esperimenti atomici. Se, infatti, Blood Feast e Two Thousand Maniacs di Herschell Gordon Lewis inaugurano questo sottogenere, La notte dei morti viventi di George Romero e Non aprite quella porta di Tobe Hooper ne confezionano (il primo - tra l’altro - dando il via al New Horror) l’istituzionalizzazione, il film di Craven ne segna il principio del declino (nel 1978 - diretto dallo stesso Romero - uscirà Zombi, il quale rimarrà comunque fedele a questa specificità dell’horror moderno). Non è quindi troppo azzardato forse definire questa prima fase del New Horror come una delle ultime propaggini della modernità cinematografica (intendendola come cinema che dalla Nouvelle Vague si propaga per tutto il globo in tante “onde”): fortemente connotato politicamente, il gore si caratterizza per l’estrema cupezza e per la lontananza dalla dimensione giocosa che farà invece propria più avanti lo splatter, sottoponendo la carne e il sangue a una sorta di trattamento estetico che porta con sé una forte componente ludica (che influenzerà - tra l’altro - la poetica sanguinolenta di Tarantino). Mentre il gore si pone decisamente come cinema indipendente e di denuncia (della società dei consumi, delle atrocità della guerra), questa tendenza, che qualifica - per esempio - il cinema di Raimi, Jackson e Barker “gioca” piuttosto sull’eccesso, sull’esibizione iperrealistica (e ironica) della violenza. Politica e orrore dunque convivono, così come si oppongono e si rafforzano il vuoto degli spazi rappresentati e la matericità della carne e del “sangue raggrumato” in un universo non del tutto dissimile a quello raccontato dal genere western. Si potrebbe così non a torto pensare il film di Craven come film sull’America e sull’eterno senso di colpa dei bianchi americani per lo sterminio e l’espropriazione della terra agli indiani (più recentemente Fantasmi da Marte di Carpenter si troverà a sovrapporre horror e western, spiriti e guerrieri). A conferma di questo vale il fatto che la famiglia cannibale si inserisce pienamente nell’iconografia della rappresentazione dei pellerossa: il copricapo piumato, gli stessi nomi dei componenti rinviano a elementi naturali e a una qualche comunione con gli elementi del cosmo (simile – appunto - a quella propria degli indiani d’America); oppure, sull’altro versante si pensi al vecchio Bob - ex poliziotto - , il quale sembra a tutti gli effetti ricoprire il ruolo (qui usciamo dall’ambito meramente rappresentativo per lambire quello narratologico) dell’official hero del western classico, che difende una piccola comunità che, nel momento del pericolo, si mette in cerchio per pregare. Brevi problematiche di genere che paiono appianarsi se si tralascia momentaneamente l’aspetto “sintattico” qui molto brevemente preso in esame per considerare il lato “semantico” (la terminologia che utilizzo è chiaramente mutuata dagli studi di Rick Altman sui generi) concernente l’horror: l’incontro con il “diverso”, il mostruoso, la crisi del rapporto tra razionale e irrazionale sono a tutti gli effetti i grandi significati che anche questo Le colline hanno gli occhi fa propri. D’altra parte la stessa struttura narrativa del film sembra confermare la sua appartenenza al genere dello spavento orrorifico: nei primi minuti del film viene proposto uno schema classico del cinema horror, qui declinato a scheletro della fiaba: i personaggi escono dal loro habitat e incontrano il pericolo qui rappresentato da un gruppo di uomini-bestie che vivono in simbiosi con il deserto, senza raziocinio, violentemente brutali. Come nella fiaba si hanno il viaggio dell’eroe (la famiglia diretta verso la California), il divieto (il vecchio Fred consiglia loro di non fare sosta e soprattutto di non prendere scorciatoie) e l’infrazione (la famiglia decide di tagliare la strada incappando in un incidente che mette fuori uso la macchina).
Tornando alla rappresentazione delle due famiglie, è possibile ravvisarvi una sorta di specularità indotta: anche i barbari di Jupiter desiderano festeggiare un proprio “giorno del Ringraziamento” cibandosi però di carne umana e maledicendo la stirpe dell’uomo bianco. D’altra parte la stessa progressione narrativa pare suggerire questa lettura che avvicina la bestialità del selvaggio alla violenza dell’uomo ultracivilizzato: se già la pistola si pone fin dall’inizio come rimedio a tutto, dopo lo scontro finale tra il sopravvissuto Doug e Mars, il Primo Piano dell’uomo che infierisce contro il cadavere del cannibale sembra lasciar intravvedere in trasparenza l’immagine della scimmia di 2001: Odissea nello spazio che apprende l’utilizzo dello strumento di offesa contro una carcassa. La famiglia di Jupiter e Pluto quasi come “doppio” e opposto di quella di Bob e Doug: molteplicità contro molteplicità. Nel cinema di Craven troviamo volentieri il doppio e il multiplo: la ragazzina Samantha si presenta come doppio del robot BB (doppia “B”) in Dovevi essere morta (1986), la moltiplicazione del male negli oggetti in Sotto shock (1989) (uscendo dall’ambito dell’horror e del fantastico si può anche ricordare che ciò che viene eseguito nella scena finale di La musica del cuore del 1999 è proprio il Doppio Concerto di Bach); restando invece a una dimensione prettamente testuale è d’obbligo menzionare l’uscita nel 1985 del doppio di Le colline hanno gli occhi (il seguito, poco conosciuto in Italia), poi Il mostro della palude (1982), il quale ha generato un seguito cinematografico e una serie televisiva, i tre Scream in coppia con Williamson e infine la proliferazione testuale che vede coinvolti Nightmare - Dal profondo della notte (1984) e i suoi sette seguiti. Rimanendo al film, possiamo analizzarne molto brevemente due degli elementi paratestuali, e più specificatamente il titolo originale e i titoli di testa. Questi ultimi infatti hanno sicuramente intento dichiarativo, quantomeno dal punto di vista visivo: una lenta panoramica verso destra scopre il profilo frastagliato di colline nere che nascondono parzialmente un notturno cielo bluastro: il quadro è perpetuamente diviso in due parti, l’una superiore spazialmente all’altra. Sul titolo del film invece è possibile osservare che “Hills” ha due “l”, “Eyes” ha due “e”, le due “H” di “Hills” e “Have”; infine “eyes”: “occhi” (i quali sono due). Sembra che la doppiezza possa essere individuata come una delle cifre del film, tenendo infine conto della presenza delle due famiglie e dei due cani. Doppiezza e specularità che si ritrovano anche nelle competenze e nei diversi saperi che afferiscono alle due famiglie: la famiglia protagonista sembra da subito caratterizzata dall’impossibilità di vedere, non solo intendendo questa incapacità come difficoltà nel cogliere il senso della situazione di pericolo in cui si trova, ma qui è la percezione del mondo, lo stesso modo di conoscere a essere messo in gioco. Spesso la vista incontra ostacoli, barriere e fatìca a discernere ciò che si muove nell’oscurità (è questo un film in cui spesso si spara contro il buio). Per contro, la famiglia di Jupiter si qualifica per la dote della vista, tant’è che il primo “segno” all’interno del testo che ne manifesta la presenza è una soggettiva di Pluto (lo presumiamo) mentre scruta - non visto - le prossime vittime intente a pregare. E’ da notare che questa soggettiva è filtrata da un binocolo, strumento che - non a caso - potenzia il senso della vista. Bob e compagni riescono a conoscere (e quindi a salvarsi) quando altri sensi sono coinvolti nel processo conoscitivo: l’udito (il ritrovamento del walkie talkie al di fuori della roulotte) quando non anche sensibilità non umane che perciò prescindono totalmente dalla razionalità: si può dire che in questo survival horror è l’istintualità animale (canina ma anche umana) a permettere la sopravvivenza dell’uomo bianco.

Una nuova famiglia di testi: New New Horror
Accennando al remake del film craveniano operato da Alexandre Aja, può risultare fruttuoso illustrare il contesto di genere (ma anche produttivo, sociale) in cui tale opera di rifacimento si inserisce. Parliamo di New New Horror (contrapposto al New Horror, di cui sopra si sono precisate alcune coordinate) come una corrente di genere che raggruppa un insieme composito di testi: essa segue due diverse biforcazioni: da una parte la new wave dell’horror orientale (da Ringu di Nakata in su) - riveduta dagli Studios in tempi recentissimi, dall’altra remake hollywoodiani di alcuni testi chiave del New Horror (Romero - La notte dei morti viventi (1968) -, Hooper - Non aprite quella porta (1974) -, Craven - Le colline hanno gli occhi-). Tralasciando in questa sede il filone orientale, resta comunque sensato - date le premesse - ammettere l’altissimo grado di intertestualità che caratterizza New New Horror, laddove testo citante e testo citato sono lontani sia temporalmente (i trenta e più anni che lo separano dagli anni Settanta, ma ancora più lontani riferimenti si trovano in La mummia (1999) e Van Helsing (2004) - entrambi di Stephen Sommers - all’horror classico targato Universal e Hammer) sia spazialmente (ma anche culturalmente, se si compara l’Oriente a Hollywood). Il New New Horror privilegia generalmente l’effetto digitale in luogo del trucco di scena e sovente sfrutta la convergenza mediale: non solo l’intertestualità “spinta” (utilizzo il termine “intertestualità” preferendolo ad “architestualità”) è la cifra del New New Horror, ma anche l’intermedialità: dall’universo del videogame provengono, tra gli altri, Resident Evil (2002) di Paul W. Anderson e House of Dead (2003) di Uwe Boll. Rimanendo nella dimensione produttiva si nota un certo iato tra quello che era il New Horror, “fermentato” lontano da Hollywood, e le filiazioni contemporanee di cui ci si sta occupando: queste si inseriscono pienamente nell’universo degli Studios: sono a tutti gli effetti prodotti dell’industria, delle major, in antitesi alle quali erano invece nati gli originali. Oltre a queste componenti, corre l’obbligo di ricordare l’ambiente sociale e culturale in cui questi remake vengono proposti: un contesto assai mutato rispetto a quello in cui ha visto la luce il New Horror, un genere per gran parte animato da intenti di critica sociale. Problematico in questo senso diventa anche l’incontro tra testo e contesto. Controverso pare essere anche il rapporto tra testo e genere di appartenenza in termini di “progressione estetica e narrativa”: definire quale sia l’effettivo apporto offerto da questi remake all’evoluzione delle forme dell’horror sembra essere impresa non agevole. Così come apparirebbe arduo dire - se ci si distaccasse da un’analisi testualista per abbracciare una visione autorialista applicata ai generi - quanto questi ultimi ricalchino le forme aspre dei loro “predecessori” senza invece imparentarsi piuttosto al videoclip o allo spot pubblicitario (Niespel, Snyder - tra gli altri “autori” del New New Horror - provengono infatti da questi due mondi: non sarebbe forse del tutto errato postulare una certa influenza della formazione registica in termini di montaggio e fotografia sulle modalità di messa in quadro e messa in serie riguardanti questi film). Purtuttavia quest’ultima questione pare afferire più a un universo estetologico (quando non assiologico) che non eminentemente testualistico. Altro dato non secondario di questa nuova ondata è un certo rimescolamento dei generi (avventura, commedia romantica, fantascienza). Ed è di certo New New Horror mescolato con ironia, questo redivivo Le colline hanno gli occhi 2006 nonostante ricalchi pressochè interamente il testo-matrice, quantomeno dal punto di vista dell’intreccio. A questo si può aggiungere un uso sapiente delle tecniche dello slasher e una certa padronanza dei meccanismi di genere. Come in ossequio al maestro Craven, il francese Aja ricorre a un uso “artigianale” del gore rinunciando quasi completamente al digitale (minimo è il ricorso alla Computer Generated Imagery), quasi a stabilire un rapporto più “intimo” con il film-madre del 1977. Link tra i due testi presi in considerazione è infatti la stessa presenza di Craven, lì dietro la macchina da presa, qui dietro un lavoro produttivo che può contare sul triplo del budget impiegato per il proprio film trent’anni prima. Una differenza tra i due film è riscontrabile nelle diverse strategie di sfruttamento dello star system che mettono in atto i due film: in particolare il remake punta sulla riconoscibilità “televisiva” dei volti degli attori (altra peculiarità del New New Horror è il suo taglio quasi esclusivamente “teen”) e sull’avanzamento a ruoli di protagonisti da parte di attori generalmente di secondo piano (Billy Drago, Ted Levine), quando il film di Craven ospitava attori praticamente semi-professionisti e sconosciuti al grande pubblico.