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Soffermandosi ad un primo livello
di lettura il film di Forman, come già accaduto ad alcuni recensori,
potrebbe deludere, un po come è successo già allultimo
Polanski si potrebbe pensare ad una fiction di gran lusso, magari con
un maggior tasso di gusto figurativo rispetto alla media di simili prodotti,
con in più un occhio di riguardo verso il fasto che in simili
occasioni produttive sapeva sfoggiare il cinema classico. Ma si farebbe
sicuramente torto a Forman che, cineasta di lungo corso, non si limita
mai a fare da metteur en scene, allestitore di uno spettacolo che in
fondo non è nemmeno più spettacolo agli occhi di un pubblico
che si è abituato a ben altri standard di effetti digitali e
tecnologici per soffermarsi più di tanto di fronte alla malia
del film in costume. Goyas Ghosts, titolo originale
per lennesima volta storpiato dalla distribuzione italiana, acquista
come minimo un interesse critico nel momento in cui si sgombra il terreno
da tutta una serie di possibili equivoci interpretativi. Equivoco numero
uno: il cinema classico. lUltimo inquisitore
ha un respiro registico e formale che sembra rimandare, nel puntiglio
della ricostruzione scenografica come nel ritmo disteso ad un feuilletton
degli anni '50, ma appunto cinema classico vuol dire in pieno postmoderno
rimando, citazione, smontaggio di un meccanismo. Se Forman fa una quasi
fiction è solo perché poi deve non farla funzionare, deve
sottilmente aggirarla perché chi guarda si accorga del metacinema,
delloperazione che cè sotto. I meccanismi fanno finta
di rendere un clima storico ma in realtà lo occultano nella drammaturgia,
nel romanzo. Qui alla perfezione scenografica si abbina una narrazione
quasi a singhiozzo e il clima del Settecento è reso parzialmente,
come qualcosa che, giustamente, sfugge. Deve sfuggire, altrimenti lopera
di colonizzazione dello sguardo su un tempo storico che risulta ed è
alieno sarebbe completa. Seconda puntualizzazione: il film si intitola
Goyas Ghosts, quindi i protagonisti sono i fantasmi
che Goya vide attraverso le cose e non le cose stesse. Lo dimostrano
perfettamente i titoli di testa. Una serie di incisioni di Goya stesso.
Un salto allindietro: i titoli di testa di Man on the
Moon: Kaufmann-Carrey dice di aver tagliato tutto il film poi
maneggia un proiettore e lo indirizza verso lo spettatore. Non siamo
davanti ad un film su Andy Kaufmann, un biopic che ci spieghi il personaggio,
ma ad un film di Andy Kaufmann, che ci restituisca la sua arte. Stesso
intento qui: il film è di Goya, da qui la sua natura fantasmatica
e sfuggente, così come le incisioni di Goya, perfino i suoi ritratti
più ufficiali, rimanevano perturbanti. Con un elemento in più:
il film comincia in realtà con una soggettiva. La soggettiva
è quella di un gruppo di inquisitori che vuole decidere cosa
farsene di quelle immagini ai loro occhi così stravaganti e inquietanti.
Lo sguardo dello spettatore viene fatto coincidere con quello della
Santa Inquisizione. Il fulcro tematico del film in queste brevi sequenze
è chiarissimo. Il rapporto tra l arte e il potere: potere
dello sguardo (Goya), potere sullo sguardo (LInquisizione). Chi
guarda il film si trova in mezzo a queste due opzioni. Accettare la
visione di Goya, ricercata nel grottesco delle rappresentazioni ufficiali
da Forman in tutto il film (si permette perfino un accostamento a Bosch),
oppure sfruttarla per chiudere limmagine in una visione ufficiale,
ciò che vorrebbe fare il giovane inquisitore Don Lorenzo e il
futuro tribuno rivoluzionario, sempre Don Lorenzo appunto, dopo un bagno
negli ideali rivoluzionari francesi. Raramente Forman ha usato lo stratagemma
del doppio per definire la sua visione, lo fa qui con metodo sui volti
e sulle espressioni di Natalie Portman e Javier Bardem. La prima ricopre
direttamente due ruoli, di madre e di figlia, due diversi modi di essere
posseduti e venduti da un sistema di potere che è sempre e prima
di tutto potere sul corpo e sulla sessualità. Il secondo sdoppia
e in maniera quasi meccanica il suo Lorenzo in una sorta di polarità:
tanto introverso e distaccato, curiale è il primo, quanto estroverso,
ciarliero, tribunizio appunto è il secondo: ma appunto a Forman
non interessa la psicologia e la crescita del personaggio, quanto ciò
che ne appare e cioè laderenza alle rappresentazioni ufficiali
che il potere vuole dare di sé: uomo di potere, quindi abile
regista della sua immagine, Lorenzo è un ipocrita sepolcro imbiancato
da inquisitore, un finto passionale sotto Napoleone, perché queste
sono le immagini che il potere vuole dare di sé in due sue diverse
incarnazioni. Quel che non passa è la sua esistenza. In questo
si potrebbe dire che il discorso del regista ceco si fa scettico. Ma
chi ha dovuto vedere il passaggio ultraideologico dalla ferocia nazista
allottusità burocratica e poliziesca del regime filosovietico,
al conformismo mercantile della produzione hollywoodiana ha diritto
di sottolineare la persistenza dei modelli di potere sotto il velo delle
differenti apparenze delle immagini. E Goya? Goya, molto semplicemente
non è il protagonista del film. Di nuovo Man on the moon:
alla fine del precedente film campeggiava sullo schermo unicona
al neon, raffigurante Kaufmann ridente alle spalle dello spettatore.
L artista rideva alle spalle del suo pubblico, con il suo pubblico.
Qui, non è uno spoiler, lultimissimo fotogramma del film,
dietro ai titoli di coda, rappresenta un autoritratto di Goya che ci
consegna il suo sguardo sulle cose e, implicitamente, con la sua malinconia,
ci invita a guardare. Per tutto il film viene soltanto sottolineata
la sua impotenza: la sordità che si manifesta nel momento in
cui viene bruciato un suo dipinto, il fatto di poter diventare soltanto
un occhio, di non poter mai influire sulle cose, di essere anche un
conformista che, come lo accusa Don Lorenzo, è un servitore di
qualsiasi regime, oltre la stessa realtà storica di Goya. Il
pittore segue le cose, ne svela un lato inaspettato, ma, essendo un
occhio, non le può cambiare. Può soltanto offrire delle
chiavi di lettura per orientarsi. Sul come Forman lascia cadere la domanda:
i suoi personaggi si muovono in un universo sfilacciato (ma il film
funziona per brevi frammenti, non cerca la linearità narrativa),
i fili sono lasciati al pubblico, in un film che richiede responsabilità
allo sguardo.
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