|
Alcuni anni fa, ai tempi non troppo
lontani della prima Playstation®, chi scrive era, come si dice in
gergo, un hardcore gamer. Senza gli eccessi di fanatismo adolescenziale
tipo i joypad costruiti su misura (andavo già per i
trenta), ma serio, programmatico, infaticabile, e - per me stesso -
pericolosissimo. A Resident Evil giocai anche sedici ore al giorno:
fu una bomba di dimensioni indefinite, un mix di action e atmosfere
gore calibrato per farvi sentire costantemente in tensione, una storia
dal respiro ampio e articolato, eppure assolutamente sempliciona, tanto
che riassumerla su un sito di cinema sarebbe piuttosto noioso. Però
funzionava perfettamente, e mi sorpresi dopo un po a chiedermi
perché. Fu così che scoprii il Santo Graal del mondo videoludico:
il gameplay, ovvero la giocabilità. Quellinsieme
di ingredienti magici - alcuni molto tecnici - che un buon game
designer deve sempre mescolare con talento ed estro per far sì
che giocare sia come mangiare ciliegie o leggere uno dei vecchi libri
di Stephen King: che un quadro tiri laltro, come fosse una ciliegia
o una pagina, appunto. Non voler smettere. Si tratta di equilibrio tra
le parti: tra la fatica continua di adattarsi ad un sistema di gioco
spartano (uno stick e otto tasti per muoversi nel mondo), quella
di dover sopravvivere, e la solidità dellaspettativa narrativa
indotta. Ossia il voler vedere cosa accade dopo, se questi sono i presupposti.
Perché accade a te: il tuo personaggio, come accade nei film,
sei tu.
A tutto questo ripensavo dopo la visione di Resident evil: extinction,
la sera scorsa. Continuavano a venirmi in mente le mie nottate tra le
vie di una città desertificata da uninvasione di zombi;
continuavo a pensare al gameplay. Nessuna delle tre parti della
trilogia ha gameplay. Il porting su pellicola (porting
è il termine con cui si indica la versione di un videogioco per
una piattaforma diversa da quella per cui era stato realizzato inizialmente)
del capolavoro Capcom è da questo punto di vista una delusione,
con buona pace degli strappabiglietti al botteghino.
Eppure cè tutto, anche in questo ultimo film. Cè
lambientazione, che gioca massicciamente al gioco evergreen della
citazione, del rimando: ed ecco Mad Max ecco Alien
Resurrection, ecco, manco a dirlo, tutto Romero minuto per
minuto. E cè la consapevolezza che ad uscire allo scoperto,
a far esplodere le coordinate rispetto al modello fornito dal titolo
Capcom non ci fosse se non da guadagnare. Questo terzo episodio esibisce
un passo e una dimensione spaziale che lassestano sullo stile
western: asciutto, en plein air, duellante. La regia è
quella di Russell Highlander Mulcahy, che si fa prendere
la mano dai virtuosismi di questi fanta-action del terzo millennio,
ma neanche troppo. Poi cè la Jovovich, bella quanto basta,
anche se con tutto lo sporco e il sole e la polvere di un mondo post-apocalittico,
il suo makeup era così perfetto e plasticoso che mi veniva costantemente
in mente il Galbanino® e la sua deliziosa pelle di cera. In ultimo,
non per importanza, cè una sceneggiatura con un paio di
scene pensate, se non addirittura ispirate, come quella dei corvi (che
ringraziamo per il déjà-vu hitchcokiano) o quella smargiassa
dellultimo spinello.
Eppure mancava di gameplay, se mi si passa il porting del termine.
Lhardcore gamer che era in me si è risvegliato
(probabilmente per tutti quei riferimenti alla Umbrella Corp) e adesso
guardava il film come se fosse un videogioco. Era evidente che, se quelle
fossero state le schermate del nuovo episodio next-generation del videogame,
sarebbe stato un paradiso. Ma al cinema non funzionava, perché
in consolle Claire Redfield ero io, e lì al cinema Milla era
Milla - pure troppo - e basta.
Spesso i migliori videogame hanno una trama e un ambientazione così
poco originale da rasentare il marcio - o linesistente (Doom).
Ma hanno gameplay da vendere, cioè ti vendono perfettamente
la balla che dietro quella porta ad aspettare lo zombie ci sei tu col
fucile a pompa: semplicemente perché è proprio così.
Altrettanto spesso videogame dagli altissimi blasoni, cioè ispirati
a grandi film o fumetti o entrambi, hanno solo quello da venderti: il
licensing ufficiale; oppure si concentrano così tanto
sulla storia che poi ti resta solo da guardarla, a braccia conserte
(Fahrenheit).
Ecco cosa è accaduto alla trilogia di Biohazard (titolo originale
giapponese): tutto ciò che ha fatto è stato rendere perfettamente
lambientazione del gioco, solo che il gioco laveva presa
dal cinema; un porting di seconda generazione, per così
dire, che ha indebolito con troppi passaggi la freschezza delloperazione.
Tutto rimanda, tutto è già visto, anche le situazioni
e le tamarraggini delle eroine sempre sexy, ma rimanda ad un complesso
iconografico distillato da così tante esportazioni da poter funzionare
solo come sfondo di unazione vissuta in prima persona. Quando
cioè i tuoi riflessi sul grilletto (poco importa se si chiama
pulsante) sono al millisecondo, la tua mira è perfetta e le tue
decisioni sono istintive e ponderate insieme, e da questo dipende il
dipanarsi della trama.
Se ad un giocatore si toglie il joypad di mano, bisogna catturarlo
dentro lo schermo con qualcosaltro, solo che è più
difficile. E questa è decisamente unaltra storia.
|