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Resident evil: extinction
Id., Usa, 2007
di Russell Mulcahy, con Milla Jovovich, Oded Fehr, Ali Larter, Iain Glen, Ashanti, Mike Epps

Il porting del gameplay
recensione di Emanuele Boccianti
di nostalgia



Alcuni anni fa, ai tempi non troppo lontani della prima Playstation®, chi scrive era, come si dice in gergo, un hardcore gamer. Senza gli eccessi di fanatismo adolescenziale tipo i joypad costruiti su misura (andavo già per i trenta), ma serio, programmatico, infaticabile, e - per me stesso - pericolosissimo. A Resident Evil giocai anche sedici ore al giorno: fu una bomba di dimensioni indefinite, un mix di action e atmosfere gore calibrato per farvi sentire costantemente in tensione, una storia dal respiro ampio e articolato, eppure assolutamente sempliciona, tanto che riassumerla su un sito di cinema sarebbe piuttosto noioso. Però funzionava perfettamente, e mi sorpresi dopo un po’ a chiedermi perché. Fu così che scoprii il Santo Graal del mondo videoludico: il gameplay, ovvero la giocabilità. Quell’insieme di ingredienti magici - alcuni molto tecnici - che un buon game designer deve sempre mescolare con talento ed estro per far sì che giocare sia come mangiare ciliegie o leggere uno dei vecchi libri di Stephen King: che un quadro tiri l’altro, come fosse una ciliegia o una pagina, appunto. Non voler smettere. Si tratta di equilibrio tra le parti: tra la fatica continua di adattarsi ad un sistema di gioco spartano (uno stick e otto tasti per muoversi nel mondo), quella di dover sopravvivere, e la solidità dell’aspettativa narrativa indotta. Ossia il voler vedere cosa accade dopo, se questi sono i presupposti. Perché accade a te: il tuo personaggio, come accade nei film, sei tu.
A tutto questo ripensavo dopo la visione di Resident evil: extinction, la sera scorsa. Continuavano a venirmi in mente le mie nottate tra le vie di una città desertificata da un’invasione di zombi; continuavo a pensare al gameplay. Nessuna delle tre parti della trilogia ha gameplay. Il porting su pellicola (porting è il termine con cui si indica la versione di un videogioco per una piattaforma diversa da quella per cui era stato realizzato inizialmente) del capolavoro Capcom è da questo punto di vista una delusione, con buona pace degli strappabiglietti al botteghino.
Eppure c’è tutto, anche in questo ultimo film. C’è l’ambientazione, che gioca massicciamente al gioco evergreen della citazione, del rimando: ed ecco Mad Max ecco Alien Resurrection, ecco, manco a dirlo, tutto Romero minuto per minuto. E c’è la consapevolezza che ad uscire allo scoperto, a far esplodere le coordinate rispetto al modello fornito dal titolo Capcom non ci fosse se non da guadagnare. Questo terzo episodio esibisce un passo e una dimensione spaziale che l’assestano sullo stile western: asciutto, en plein air, duellante. La regia è quella di Russell Highlander Mulcahy, che si fa prendere la mano dai virtuosismi di questi fanta-action del terzo millennio, ma neanche troppo. Poi c’è la Jovovich, bella quanto basta, anche se con tutto lo sporco e il sole e la polvere di un mondo post-apocalittico, il suo makeup era così perfetto e plasticoso che mi veniva costantemente in mente il Galbanino® e la sua deliziosa pelle di cera. In ultimo, non per importanza, c’è una sceneggiatura con un paio di scene pensate, se non addirittura ispirate, come quella dei corvi (che ringraziamo per il déjà-vu hitchcokiano) o quella smargiassa dell’ultimo spinello.
Eppure mancava di gameplay, se mi si passa il porting del termine. L’hardcore gamer che era in me si è risvegliato (probabilmente per tutti quei riferimenti alla Umbrella Corp) e adesso guardava il film come se fosse un videogioco. Era evidente che, se quelle fossero state le schermate del nuovo episodio next-generation del videogame, sarebbe stato un paradiso. Ma al cinema non funzionava, perché in consolle Claire Redfield ero io, e lì al cinema Milla era Milla - pure troppo - e basta.
Spesso i migliori videogame hanno una trama e un ambientazione così poco originale da rasentare il marcio - o l’inesistente (Doom). Ma hanno gameplay da vendere, cioè ti vendono perfettamente la balla che dietro quella porta ad aspettare lo zombie ci sei tu col fucile a pompa: semplicemente perché è proprio così. Altrettanto spesso videogame dagli altissimi blasoni, cioè ispirati a grandi film o fumetti o entrambi, hanno solo quello da venderti: il licensing ufficiale; oppure si concentrano così tanto sulla storia che poi ti resta solo da guardarla, a braccia conserte (Fahrenheit).
Ecco cosa è accaduto alla trilogia di Biohazard (titolo originale giapponese): tutto ciò che ha fatto è stato rendere perfettamente l’ambientazione del gioco, solo che il gioco l’aveva presa dal cinema; un porting di seconda generazione, per così dire, che ha indebolito con troppi passaggi la freschezza dell’operazione. Tutto rimanda, tutto è già visto, anche le situazioni e le tamarraggini delle eroine sempre sexy, ma rimanda ad un complesso iconografico distillato da così tante esportazioni da poter funzionare solo come sfondo di un’azione vissuta in prima persona. Quando cioè i tuoi riflessi sul grilletto (poco importa se si chiama pulsante) sono al millisecondo, la tua mira è perfetta e le tue decisioni sono istintive e ponderate insieme, e da questo dipende il dipanarsi della trama.
Se ad un giocatore si toglie il joypad di mano, bisogna catturarlo dentro lo schermo con qualcos’altro, solo che è più difficile. E questa è decisamente un’altra storia.