la Ragazza con l'orecchino di perla
Il non miracolo della creazione
di Carlo Vargas

 
  Girl with a Pearl Earring, Gb/Lussemburgo, 2003
di Peter Webber, con Colin Firth, Scarlett Johansson, Tom Wilkinson


Prima della storia di un pittore, quella di un quadro, prima dei tormenti spirituali dell’artista, i dettagli tangibili della sua vita quotidiana e della casa in cui lavora, con le sue forme, le luci, i colori e gli odori, pronti a depositarsi lentamente sulla tela attraverso la caparbia pazienza (e non il miracolo) della creazione. Il film di Peter Webber, tratto dal best-seller di Tracy Chevalier, rispetto a tante cinebiografie imponenti ma flaccide, prova almeno a raccontare il genio di Vermeer assecondando lo stile e lo spirito del pittore fiammingo, non solo riproducendone sullo schermo i preziosismi della ricerca cromatica, come era ovvio aspettarsi, bensì spingendo il film verso una dimensione intima e raccolta, fortemente limitata nello spazio e nel tempo. La narrazione si svolge infatti per intero nella ristretta, quasi claustrofobica abitazione della famiglia Vermeer, e viene convogliata nel breve arco di tempo del rapporto a due tra il pittore e la domestica Griet, con le dinamiche affettive che scaturiscono nella casa e la conseguente gestazione dell’opera che dà il titolo al film: il risultato è una sinfonia sommessa puntellata di piccoli gesti, in cui l’evidenza fisica degli oggetti, il loro disporsi, il loro lento venire alla ribalta, acquista un peso specifico maggiore rispetto alle parole. È esemplare, in fondo, l’episodio a sé stante della camera oscura , acquistata da Vermeer e mostrata orgogliosamente a Griet, nel tentativo di spiegarle la necessità ossessiva di concentrare il proprio sguardo su una porzione ristretta di mondo: la cinepresa di Webber, pronipote diretta del sorprendente congegno, compie un’operazione simile di sottrazione, di affilamento dello sguardo verso i dettagli, togliendo luce a molte scene (la stanza sotterranea di Griet), togliendo visibilità agli stessi corpi dei protagonisti, Griet per prima, dotata di una consistenza quasi fantasmatica e obbligata a nascondere perennemente i capelli sotto la cuffia bianca da domestica. Quello che rimane da vedere del suo corpo sarà infine immortalato in un quadro, ma anche tale conquista passa attraverso un intenso processo di mediazioni, dal momento in cui Griet è prima di tutto una figlia che adempie ai doveri famigliari (mentre taglia semplici verdure nell’inquadratura che apre il film), quindi un’esperta domestica (attraverso le sue mani passa ora una quantità infinitamente più varia di cibi, stracci e saponi), poi un’apprendista silenziosa (mescola i colori per il maestro), una suggeritrice inaspettata (cambia la disposizione del quadro che il suo padrone sta dipingendo), infine una modella-ispiratrice e amante platonica. Questo percorso è appunto un percorso puramente gestuale, fatto di manipolazione di oggetti sempre più complessi, in una lenta scalata verso la creazione artistica che parte dal sostrato tattile della casa che ospita il pittore e i suoi sensi per passare ai suoi strumenti e solo alla fine arrivare alla purezza contemplativa dell’offrirsi come modello da eternare. L’orecchino di perla è il punto di fuga di tutta la costruzione, l’immacolato sforzo di trascendenza di cui abbiamo conosciuto le basi materiali più fisiche e sensuali, raccolte da Griet silenziosamente su di sé. Da frutto miracoloso di una mente vulcanica, la creazione artistica si trasforma nella storia di un lento e domestico germogliare, raccolto nella terra più umile.