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id.,
Palestina, 2005
di Hany Abu-Assad, con Ali Suliman, Kais Nashef, Lubna
Azabal, Amer Hlehel

“Ventiquattro ore nella testa di un kamikaze”, recita la tag-line
sul manifesto del film.
Eppure, per la prima mezz’ora, ti ritrovi a gustare un lungometraggio
che davvero non ti aspetti. L’incipit della pellicola possiede
infatti una leggerezza di tocco ed una precisione nel tratteggiare i
due protagonisti che tutto lascia presupporre tranne che si tratti di
un dramma. Piuttosto, la sapida e pungente ironia che pervade i gesti
e soprattutto lo sguardo attento del giovane Said si presta quasi ad
una caratterizzazione da commedia di costume. Nella sua prima parte,
quindi, Paradise Now compie il piccolo miracolo di
adattare un tipo di messa in scena assolutamente coerente nel suo essere
“povera” - vedi ad esempio il grande insegnamento estetico
di un maestro come Kiarostami - con un tono che a livello sotterraneo
si dispiega come efficacemente scanzonato: quando perciò arriva
il brusco ritorno alla tematica portante del film, con il richiamo dei
due giovani al loro dovere di guerrieri e di martiri, lo scarto e la
sferzata che lo spettatore ne riceve sono ancor più potenti.
Il giovane e simpatico Said si trasforma dunque, agli occhi di chi guarda,
in un fanatico pronto ad immolarsi il giorno successivo abbandonando
madre, fratelli, ragazza (non ancora) amata e soprattutto la figura
opprimente di un padre collaborazionista ed assassinato. L’intera,
bellissima sequenza della “nascita” dei due kamikaze, una
sequenza densa di rituali religiosi ed insieme dell’intima quotidianità
di un pasto, è sicuramente il momento del film in cui l’adesione
empatica con i protagonisti si fa più forte, e per questo ovviamente
spiazzante.
Da momento in cui i due protagonisti devono passare all’azione,
al sacrificio dell’atto terroristico, il film perde quasi completamente
di vista la sua coerenza interna, soprattutto a causa di una sceneggiatura
che inizia piuttosto vistosamente ad annaspare i una serie di snodi
tanto “chiamati” quanto inutili ed artefatti. Per di più,
la regia composta di Abu-Assad si perde in una serie di semi-virtuosismi
del tutto non richiesti, insistendo senza sosta su movimenti di macchina
non giustificati. Paradise Now nella seconda parte
è perciò un film che spreca tutto quanto seminato nella
prima: le motivazioni dei personaggi diventano incoerenti, e soprattutto
i cambiamenti di idea e stato d’animo dei terroristi eccessivamente
repentini per due persone prima raffigurate come radicalmente votate
alla loro causa. Il film perde mordente, tensione narrativa, e non si
accosta più allo spettatore nella raffigurazione di una figura
vista nella sua intimità, nel pudore e nella compostezza dei
suoi gesti e sentimenti più quotidiani: nel seguire gli eventi,
nel voler raccontare una storia inutilmente ingarbugliata, la pellicola
si perde dunque ciò che era forse più importante prezioso
raccontare: stati d’animo, sensazioni, dubbi e paure. Il discorso
politico, legato ad una trama che nel secondo tempo sembra un giallo
mal scritto, soffoca la verità dello spirito di questo film.
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