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Gomorra di Matteo
Garrone è nato come figlio prediletto della stagione cinematografica
italiana, destinato al successo grazie al caso nazionale meritatamente
esploso a proposito dell’omonimo reportage narrativo di Roberto
Saviano. Una prima considerazione: Garrone sa bene che Gomorra
è un libro complesso, tentacolare, dal respiro oblungo e controverso,
quindi rinuncia con grande intelligenza a voler riprodurre sul grande
schermo la medesima ampiezza polmonare per concentrarsi sui 4 passaggi
del libro (leggermente rielaborati), che contengono più energia
narrativa, più propensione all’azione, più potenzialità
visive. Il traffico di droga che si polverizza negli anfratti cementiferi
dei serpentoni di Scampia, il sogno di onnipotenza precoce di due adolescenti
anarchici, il doppio gioco cinese-casalese del miglior “cucitore”
della Campania, e il sublime cinismo markettaro dello stakeholder
Servillo, messo in contrapposizione col rigurgito idealista del suo
giovane collaboratore. La scelta è giusta e condivisibile. "Gomorra"
su carta è un libro di visione, di collegamenti tra aspetti del
reale torbidi e apparentemente lontani, e il paradigma dell’azione
diviene semplicemente il carburante che permette a Roberto Saviano di
rappresentare il mondo in una radiografia cruenta, ma altamente realistica.
Logiche di guadagno, inversione di valori, spregiudicatezza, violenza,
arroganza, volontà di potenza senza freno. L’affresco trova
nella pagina il suo scenario naturale, nella letteratura il suo alfabeto
privilegiato, nella riflessività della lettura il giusto ago
ipodermico. Lo schermo non avrebbe mai permesso lo sfoggio di tale complessità,
possedendo come caratteristica peculiare quella di rappresentare la
realtà non metaforicamente ma metonimicamente, cioè attraverso
se stessa. Accettando dunque l’impossibilità di offrire
allo spettatore la visione generale, filosofica, del fenomeno Camorra,
lo svolgimento dei 4 episodi (che non s’intrecciano mai se non
a livello di sottintesi), è molto riuscita. Il ritmo incalza
e la psicologia dei personaggi si esprime a graffi profondi, vissuta
con le esperienze e non enunciata, come avviene nei prodotti canonici
del cinema italiano. I tempi narrativi sono equilibrati e in ogni storia
aleggia sempre un senso di tragedia e impossibilità di cambiamento
che è il vero collante del film, cosi come accade in Fargo
o Non è un paese per vecchi.
La regia non ammicca ad eccessi da videoclip che si correva il rischio
di sovrapporre ai fatti, talmente carichi di significato da poter facilmente
adombrare le scelte linguistiche. Straordinario, invece, il lavoro compiuto
sulle facce e sulle ambientazioni. I serpentoni di Scampia bastano da
soli a evidenziare il terreno di semina della cultura camorrista. Il
cemento è il fertilizzante, le gallerie recintate sono i solchi
su cui seminare, il materiale umano i parassiti che raggrinziscono ogni
nuovo soffio di vita. Le facce esulano fortunatamente da somiglianze
borghesi. Il popolo della camorra vive una dimensione pre-borghese che
aspira segretamente a ricreare un’apparenza borghese fatta di rispettabilità,
possesso e ostentazione attraverso il consumo, logiche poi dilaniate
dall’esperienza di strada, violenta e a suo modo mitica, cioè
antiborghese. E i tratti dei volti di ogni essere umano che passa di
fronte alla telecamera sono segnati da questo contrasto di fondo, fatto
di rughe e capelli oliati, di peso eccessivo prodotto dagli accessori
e sguardi canini, spaventati, rassegnati, truci alle volte ma mai conformati
e apatici come quelli borghesi. Gli unici volti più assimilati
a quelli decorosi della borghesia sono quelli dei personaggi che di
Camorra vivono senza sporcarsi troppo le mani se non col denaro, alias
il ragioniere che porta gli stipendi nelle case degli affiliati e il
bravo Servillo (più convincente in Gomorra che
ne il Divo), luciferino stoccatore di rifiuti,
più colletto bianco in ascesa turbinosa che vero e proprio prodotto
de “O sistema”. Ci sono volti di tutte le età, anziani
adulti e adolescenti, a testimonianza dell’ampiezza trans generazionale
del fenomeno Camorra. E proprio gli ultimi, gli adolescenti, molto presto
tutt’altro che indifesi, divengono protagonisti assoluti dell’immaginario
di chi guarda il film, come accade in una delle sequenze più
suggestive, ovvero quella in cui è raccontata la prova dello
sparo nel petto come simbolo di coraggio per meritarsi l’affiliazione,
il passaggio nel mondo dei grandi, l’indipendenza economica. Il
mondo dei grandi. Ecco qual’era il vero obiettivo di Gomorra.
Trasportare lo spettatore medio nel mondo dei grandi. E anche se, come
si è accennato all’inizio, sfugge il senso filosofico de
“O sistema”, e anche se in qualche passaggio aver letto il
libro consente chiavi di lettura altrimenti poco immediate, il tentativo
di Garrone sembra andato a buon fine. Chi vede Gomorra
capisce che qualcosa di marcio esiste, qualcosa che interviene a rendere
disumana la nostra quotidianità. E chi vuole approfondire il
perché, non deve fare altro che passare alla pagina scritta.
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