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The Chronichles Of Narnia, USA, 2005
di Andrew Adamson, conTilda Swinton, Georgie Henley, Skandar Keynes, William Moseley, Anna Popplewell, Jim Broadbent.
Tra le poche certezze che questo scorcio d’inizio millennio ha regalato v’è sicuramente quella riguardante lo straordinario revival del fantasy cinematografico, sviluppatosi sulla scorta dei testi sacri della letteratura di genere: se la Rowling del maghetto Harry Potter deve ancora del tutto guadagnarsi, a parer nostro, la qualifica di “auctoritas” – sebbene la sua serie sia la più letta d’ogni tempo - lo stesso non può dirsi degli amici e colleghi J.R.R. Tolkien e C.S.Lewis, maestri storici del genere e detentori ufficiali – loro sì - del sacro fuoco dell’epica fantastica. Della fortuna del primo non staremo qui a dire, tanto più che proprio l’artefice cinematografico della sterminata saga tolkieniana è tuttora in sala con un nuovo, grande film. Le Cronache di Narniaè l’”altro”, monumentale testo del Novecento letterario fantasy; il suo autore, l’inglese Clive S. Lewis, scrittore tanto di romanzi quanto di fiabe per bambini e racconti di fantascienza, è stato inevitabilmente la prima fonte d’ispirazione per le gesta del celeberrimo maghetto di Hogwarths. A cimentarsi nella più che mai ardua – oltre che a rischio d’inflazione – trasposizione in celluloide è quel fine affabulatore di Andrew Adamson, al suo primo lavoro “live action” dopo i fasti del dittico di Shrek. Ed evidentemente ben gliene incoglie, perché il suo film – soprattutto nella prima parte – lascia stupefatti per sicurezza narrativa, scatto fantastico, modulazione di cangianti tonalità.
il Leone, la strega e l’armadio è il primo episodio della saga ambientata da Lewis nel regno di Narnia. Racconta dell’avventura dei quattro piccoli fratelli Pevensie – il maggiore, Peter, ha undici anni – eroi per caso nella guerra in corso per il dominio su Narnia, mitologica dimensione parallela a cui è possibile accedere attraversando uno splendido armadio d’epoca. Qui, il Bene e il Male sono in lotta tra loro: da una parte il popolo guidato dal prode Aslan, dall’altra l’usurpatrice Jadis, malvagia Strega delle nevi, tetra Signora dei ghiacci. Tutt’altro che scontato l’esito della battaglia, tanto più che i quattro fratellini non si schierano tutti dalla stessa parte…
Due, e si capisce già uscendo dalla sala, le frecce all’arco dell’opera. In primo luogo, Adamson azzecca in pieno la messa in scena del suo universo; lo fa senza inventare nulla, ma proprio attingendo da quello che in materia è l’immaginario più diffuso, popolato di fauni, minotauri, streghe, stregoni, eroici castori e cattivissime jene: il suo caravanserraglio di bestie e creature mitologiche funziona alla perfezione proprio perché non tradisce mai le aspettative di un pubblico che ha ormai introiettato una quantità di figure e credenze in materia; niente hobbit, elfi, nani – quelli proprietà esclusiva di Tolkien - ma solo il Re della Foresta contro la Strega cattiva. In secondo luogo – e in realtà derivato da quanto appena detto – l’epica georgica di Narnia vede schierati l’uno contro l’altra due antagonisti assolutamente carismatici, perennemente occupati a rubarsi la scena a vicenda, prima che a governare l’ambito Regno. E se per il magnifico Aslan dobbiamo ringraziare la “computergraphic” – straordinaria la sinuosa criniera del felino - giù il cappello di fronte ad una Tilda Swinton che calza come un guanto la sua Strega delle Nevi: spietata, falsissima, bianca come la Morte stessa, è lei la vincitrice morale dello scontro, tanto più che poco ci convince la risoluzione della storia, svolta un po’ macchinosamente nell’ultima parte del film. Dove l’opera di Adamson si gioca le sue carte migliori, lo ribadiamo, è nella prima ora, lenta discesa in territorio fantasy condotta con mano autoriale dal regista, che riesce nell’impresa di non sacrificare mai la potenza della singola scena alla fluidità della narrazione: si veda l’episodio dell’incontro tra la piccola Lucy e il fauno Tumnus, fulminante saggio di cinema fantastico, prima “epifania” di un mondo impossibile che trattiene “in nuce” tutta l’anima della storia.
Come capita sempre, in un racconto degno di nome.
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