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Nurse Betty,
Usa, 2000
di Neil Labute, con Morgan Freeman, Renée Zellweger,
Chris Rock, Greg Kinnear, Aaron Eckhart
Pausa di riflessione o passo falso? Tappa obbligata al box-office per
proseguire una poetica personale o omologazione definitiva ai più
commerciabili canoni hollywoodiani? L'interrogativo si pone dopo la
visione dell'ultima fatica di Neil Labute, che per la prima volta armeggia
con una sceneggiatura non sua e scardina l'abituale impianto teatrale,
scorrazzando per l'America dopo due film (Nella società degli
uomini e Amici e vicini) in cui la mdp si lasciava intrappolare
dentro asettiche location.
Dopo aver perciò rivolto il suo sguardo all'interno di un'identità
collettiva nevrotica, freddamente descritta da un catalogo di gelidi
mostri dell'ufficio accanto, Labute scosta le tendine del minimalismo
per gettare uno sguardo verso i massimi sistemi. Una scelta asincrona,
forse, visto che l'argomento è la tv e i suoi sconquassi, la
fiction e le sue vittime schizofreniche. E lo scarto psichico, ovvero
quella strana combinazione per cui un individuo fugge dal suo ambiente
per assumere una nuova identità. Nel caso della barista Betty,
totalmente spellatasi della sua personalità, equivale ad inseguire
il suo bel dottore da soap opera fingendo di essere un'infermiera. Un
monito lampante dunque, che Labute esplicita anche attraverso la figura
di Charlie (Morgan Freeman) che si getta all'inseguimento di Betty innamorandosene
gradualmente. Ma come Betty ha traslato la sua vita sul piano della
finzione, anche Charlie insegue una chimera, un immagine fittizia della
giovane 'nurse', inquadrata dal bandito come perfetta sposa a dimostrazione
dell'incapacità contagiosa di giudicare la realtà per
quella che è, e del bisogno patologico di costruirsi il surrogato
di un progetto di vita altrimenti irraggiungibile.
Furbescamente Labute cala i suoi assi in una dimensione coeniana, sbrodolando
un road-movie postmoderno assillato dal pensiero debole e condito da
personaggi desunti un po' dai fratelli del Minnesota e un po' da Tarantino,
tanto per cambiare.
Il passaporto per la notorietà possiede i soliti timbri.
La violenza è perciò espressa con quel tocco di grottesco
che affila gli spigoli a colpi di sana ironia. La lucida meschinità
presente negli altri film si riversa qui sul killer aggressivo Wesley
(Chris Rock): ma è un'ottusità fumettistica, come se la
cattiveria fosse indigesta e avesse bisogno di un sorbetto per adattarsi
a più palati.
E' la visione di un atto di violenza - l'uccisione del marito tamarro
- a spingere Betty verso la fuga nel mondo delle soap operas a cui assisteva
parallelamente nella sua camera durante l'efferato assassinio.
Ovvero, tra la bruttezza della realtà (e non ci riferiamo alla
liberatoria morte del consorte) e l'accogliente dimensione televisiva,
Betty non ha dubbi. In fin dei conti Betty spera di coronare il suo
sogno di vita all'interno di un'armonia di cartapesta; la stessa neutralità
che ingoiava i personaggi cinici delle precedenti opere labutiane, sospese
in un'atmosfera da sit-com. Quindi Labute non fa altro che abbandonare
il perfido universo dei suoi carnefici-sconfitti-impotenti-bastardi-puttane-opportunisti
per scovare e rimorchiare una bella biondina rimbambita, accompagnarla
in giro per gli States e rificcarla in quel mondo asettico di cui sopra.
Talmente finto da sembrare vero. Nei film precedenti invece tutto era
talmente vero da sembrare finto. Quel che rimane, al di là delle
evidenti concessioni al cast & credits, è un'altra accusa
infamante, ma purtroppo attendibile, nei confronti dello spettatore
che invece di finire ferito a stilettate velenose, viene coccolato da
un happy ending e da un senso di sollievo catartico che abbonda per
quasi tutto il film.
Più nolenti che volenti, visto il generale inebetimento, la tv
è come un tatuaggio nella testa degli spettatori che saranno
pure coscienti della differenza tra realtà e finzione ma continuano
a tifare per qualcuno che glielo spieghi per non dover far la fine della
povera Betty. Fosse troppo tardi, però?
Per Labute le cavie son sempre gli spettatori ma forse stavolta stenteranno
a riconoscere la somiglianza visti i compromessi eccessivi. Inoltre
la trattazione dell'influsso mediatico sulla psiche umana è un'arma
a doppio taglio perché la contaminazione estetica e psicologica
è al contempo lampante e subdola. Nessuno crede veramente di
essere così debole da cascarci. Nessuno crede di finirne soggiogato.
Il potere della tv risiede nel ricondurre qualsiasi denuncia del genere
ad una lotta tra un ebete Don Chisciotte e degli inesistenti mulini
a vento. La complicazione sorge quando si tratta di informare con credibilità
che i mulini a vento sono solamente invisibili. Labute aveva dimostrato
di possedere gli strumenti per offendere, ma è rimasto col dito
sul grilletto. |