|  | Italia, 1960 di Mario Bava, con Barbara Steele, Andrea Checchi, 
          John Richardson, Ivo Garrani, Arturo Dominici, Clara Bindi, Antonio 
          Perfederici
 
 Trama
 1830: diretti a Mosca per assistere ad un congresso scientifico, il 
          dottor Chomas ed il suo assistente Gorobec sono costretti ad attraversare 
          un orrido bosco. In una cappella diroccata, Chomas scopre un sarcofago 
          con il corpo mummificato di una strega giustiziata un secolo prima. 
          Incidentalmente, Chomas infrange il cristallo del sarcofago: alcune 
          gocce del suo sangue cadono sul corpo racchiuso, e la strega rivive. 
          Avida di vendetta, si dirige verso un castello vicino dove abita una 
          sua pronipote, Katia. Il padre di Katia si ammala e viene ucciso dal 
          dottor Chomas, sotto l'influenza della strega. Il fratello di Katia 
          finisce in fondo ad un baratro ed un vecchio servo viene trovato impiccato. 
          La strega intanto assorbe la bellezza e l'energia di Katia. Gorobec, 
          innamorato della ragazza, trova aiuto nel Pope d'un vicino villaggio: 
          nelle formule scritte sul sarcofago scoprono il sistema per liberarsi 
          della strega e dare pace alle sue vittime. La strega viene bruciata 
          viva e Katia riacquista la sua giovinezza.
 
 Menti
 La maschera del demonio (1960) è il primo film 
          come regista di Mario Bava, ma anche il primo esempio riconosciuto di 
          cinema del terrore italiano. Il genere nasce per volere della Galatea 
          di Lionello Santi e della Jolly Film di Papi-Colombo (i futuri e lungimiranti 
          produttori di Per un pugno di dollari), pare con l'intento 
          di premiare Bava per aver salvato le riprese de La battaglia 
          di Maratona (girato nel 1959 in Jugoslavia e precedentemente 
          affidato a Jacques Tourneur). La Galatea, casa di prima statura (produrrà 
          Divorzio all'italiana di Germi e due film di Rosi) 
          col vizietto della serie B, stava da alcuni anni sondando il terreno 
          cinematografico in direzione del genere fantastico: tra le sue creazioni 
          più riuscite Ercole e la regina di Lidia (1958) 
          di Francisci e Caltiki il mostro immortale (1959) di 
          Freda, a cui seguiranno alcuni dei migliori film di Bava (La 
          ragazza che sapeva troppo e I tre volti della paura) 
          e molti peplum. Bava non compare solo come regista ma come direttore 
          della fotografia, circondato già da alcuni elementi di quello 
          che sembra, all'inizio della sua ventennale carriera, un team di fidati 
          collaboratori: Ubaldo Terzano come operatore di macchina e Mario Serandrei 
          al montaggio. Alla sceneggiatura un trio disomogeneo di illustri personaggi: 
          l'eclettico Mario Bava, il montatore e critico Mario Serandrei (il Sir 
          Andrews di molti film pseudo-inglesi) e Ennio De Concini, il creatore 
          di Ercole.
 
 Corpi
 A vestire i panni della principessa Katia è una giovane Barbare 
          Steele, che in pochi anni diventerà l'icona del cinema gotico 
          italiano con film come L'orribile segreto del dottor Hichcock 
          (1962), Danza macabra (1964), Amanti 
          d'oltretomba (1965), Un angelo per Satana (1966), 
          Cinque tombe per un medium (1966). Diverse stagioni 
          dopo, verrà sfruttata da giovani talenti ne Il demone 
          sotto la pelle (Shivers, 1975) di David Cronenberg e Piranha 
          (1978) di Joe Dante. Il dottor Gorobek è John Richardson, che 
          aveva esordito nel 1958 proprio in coppia con la Steele in Bachelor 
          of Hearts (Uno straniero a Cambridge) di Wolf Rilla. Nel decennio 
          successivo lo ritroviamo nel thriller all'italiana: I corpi 
          presentano tracce di violenza carnale (1973) di Sergio Martino, 
          Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975) di Umberto 
          Lenzi, Frankenstein '80 (1980) di Mario Mancini.
 Il principe Vajda è Ivo Garrani, bravo attore teatrale relegato 
          dal cinema a miseri ruoli da caratterista. Impersonerà principi 
          e re nelle pellicole del cinema popolare: il re di Megalia in Ercole 
          alla conquista di Atlantide (1961) di Cottafavi, Giulio Cesare 
          in Il figlio di Spartacus (1963), Pelia (re di Iolco) 
          in Le fatiche di Ercole. Proprio per questa sua lunga 
          frequentazione del cinema di genere i Manetti Bros. lo hanno voluto 
          nel curioso cult "a tavolino" Zora la vampira 
          (2000).
 Il dottor Kruvajan è Andrea Checchi, attore di grande esperienza 
          teatrale e cinematografica.
 
 Personaggi
 Bava, da appassionato conoscitore di letteratura fantastica ottocentesca, 
          propone il trattamento di un racconto di Gogol, il Vij. Nulla rimane 
          dell'originale ("Naturalmente il genio degli sceneggiatori, 
          compreso il mio, fece sì che di Gogol non rimanesse assolutamente 
          nulla", dirà Bava) se non il senso di precarietà 
          tipico delle rappresentazioni della nobiltà russa che troverà 
          uno dei suoi massimi cantori in Cechov. Le novità maggiori riguardano 
          la particolare caratterizzazione dei personaggi. Asa, strega che si 
          vuole vendicare delle offese subite, è anche un vampiro: il "nosferatu" 
          è una donna, secondo la tradizione "minore" risalente 
          al Carmilla di Le Fanu, ripreso a sua volta da C.T. Dreyer in Vampyr 
          (1932). È proprio questo uno degli aspetti più innovativi 
          legato al film di Bava che fa di Asa una vampira molto particolare, 
          che vive del sangue altrui per ricostruire il suo corpo: parentela non 
          trascurabile con la duchessa Du Grand de I vampiri di 
          Freda (1956), pellicola che Bava aveva terminato dopo la fuga del regista 
          ufficiale.
 La strega è il vero protagonista del film, una donna che vive 
          di sangue umano e utilizza come servi degli uomini. E' un'antesignana 
          della "vamp" che diventerà figura centrale del film 
          del terrore italiano, la "...donna virata al mostruoso [...] 
          nucleo fondante di una vera e propria poetica della ginecofobia" 
          (FrancescoTroiano, L'horror, in Claver Salizzato, Prima 
          della rivoluzione). Gorobek e Kruvajan sono invece dottori, chiaro 
          riferimento al Dracula letterario. Il primo, giovane e inesperto, ricorda 
          Jonathan Harker mentre il secondo, convinto razionalista, si ispira 
          alla figura di Van Helsing. Il dottor Kruvajan, desideroso di conoscere 
          il vampiro si lascia però attrarre dall'oggetto dei suoi studi 
          e finisce per essere vampirizzato: la ragione non scaccia i mostri bensì 
          li crea, secondo questa beffarda interpretazione degli sceneggiatori. 
          La figura di Javutich richiama invece espressamente un'altra figura 
          dell'immaginario orrorifico, lo zombie: è un servo della strega 
          Asa, un fedele amante che lavora autonomamente per vendicarsi; topica 
          è la sua resurrezione dalla terra nel cimitero. La figura del 
          cocchiere ubriaco sembra invece mutuata dal western classico hollywoodiano 
          (ricordate Ombre Rosse di Ford?).
 Per quanto riguarda l'iconografia classica dei vampiri, gli autori sfruttano 
          tutti gli elementi classici a volte riutilizzandoli con connotazione 
          diversa: Asa risorge grazie a poche gocce di sangue del dottor Kruvajan, 
          il suo sguardo è ammaliante come quello di Dracula/Bela 
          Lugosi (Tod Browning, 1931) e quando ipnotizza la sua prima vittima 
          non lo morde sul collo ma lo bacia sulla bocca; il classico foro sul 
          collo lasciato dal morso del vampiro lo ritroveremo più tardi 
          sul collo del vecchio principe Vajda, ma apparentemente senza significato. 
          Il dottor Kruvajan viene aggredito nella cripta da un pipistrello, uno 
          dei travestimenti topici del vampiro, che in questo caso è semplicemente 
          una rimanenza, una citazione della tradizione che non ha nessun ruolo 
          nel proseguimento del racconto ma è solo un espediente per attirare 
          l'attenzione dello spettatore. Il tema del vampirismo è delineato 
          in maniera ben poco ortodossa: la strega sostituisce il vampiro e non 
          usa più i canini (con il loro evidente simbolismo fallico) ma 
          l'altrettanto sensuale bacio; inoltre, non viene impalata al cuore ma 
          all'occhio sinistro.
 
 Luoghi
 Il film è strutturato sulla contrapposizione tra la locanda (e 
          il paese che essa rappresenta) e il castello, secondo una dicotomia 
          che rimanda ancora una volta alla tradizione stokeriana. Uno degli ambienti 
          cardine della vicenda è la cripta ricoperta di ragnatele, generalmente 
          collegata da segrete e sotterranei labirinti ad un castello o una villa, 
          alla quale si accede per lunghe scalinate. I suoi prototipi sono per 
          un verso il laboratorio del dottor Frankenstein, per l'altro la cappella 
          di famiglia dove Dracula solitamente è sepolto. Tra le novità 
          scenografiche de La maschera del demonio vi è 
          il fatto che Asa non scoperchi la tomba alzando il coperchio ma la faccia 
          esplodere: il legno dell'ultima dimora della strega che si infrange 
          così violentemente è un potente simbolo visivo dell'odio 
          covato da Asa nei due secoli di prigionia nell'avello.
 Il castello dei Vajda richiama alla mente il castello di Dracula ma 
          l'iconografia sembra costruita sul modello della villa Du Grand (I 
          vampiri di Freda e il loro geniale coreografo, Beni Montresor). 
          La villa in questione è in disfacimento, così come i giardini 
          e il castello dei Vajda: pare che gli ambienti di entrambi i film si 
          decompongano di pari passo con il degrado morale dei loro abitanti. 
          Indicative di questa decadenza dello spirito le parole pronunciate da 
          Katia all'indirizzo di Andrej: "sono così disperata 
          e sola... che cos'è la mia vita? Amarezza e dolore, qualcosa 
          che si distrugge poco a poco e che nessuno ricostruisce. Ecco l'immagine 
          della mia vita. Guardate, si è consumata giorno per giorno come 
          questo guardino che langue come la mia esistenza priva di scopo". 
          L'osteria dove i due dottori pernottano è invece una palese ripresa 
          della locanda del villaggio dei film di Dracula, dove di solito ci si 
          riposa e si discute dei pericoli accorsi al castello: non a caso nel 
          film di Bava il clima è festoso, si balla e ci si ubriaca. È 
          una rappresentazione della spensieratezza quotidiana che serve ad aumentare 
          il contrasto con gli orribili accadimenti del castello ma anche un modo 
          di sottolineare come, mentre il popolo si rilassa beatamente, poteri 
          occulti stiano lavorando per il suo annientamento.
 Immancabile, come in tutti i film horror classici, il bosco, dalla vegetazione 
          prorompente (Bava crea un'inquadratura in cui le fronde circondano come 
          un occhio la carrozza) e apparentemente animato (un ramo cerca di strozzare 
          il cocchiere della carrozza su cui viaggiano il dottor Gorobek e il 
          dottor Kruvajan). Non manca neppure il cimitero, luogo sconsacrato in 
          cui si nascondono orribili verità: è la "dimora" 
          di Javutich e del dottor Kruvajan, che risorgono, scoperchiando il loro 
          sepolcro, solo quando sono chiamati da Asa per compiere atroci delitti.
 
 Giocare con le convenzioni
 La maschera del demonio si inserisce dunque in una tradizione 
          gotica ben definita. Il lento ricostruirsi del corpo della strega rivela 
          l'intenzione di mostrare la trasformazione in atto secondo una logica 
          che risale alle versioni cinematografiche di Dottor Jekill e 
          Mister Hyde, a sua volta aggiornata nella figura del licantropo. 
          Il principe Vajda nota che il grifone del dipinto sopra il camino si 
          è mosso: di quadri dall'iconografia instabile sono pieni il cinema 
          e la letteratura, a partire da Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe 
          e da Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Di dipinti 
          enigmatici, a volte in grado di risolvere misteriosi omicidi, si riempirà 
          tutto il cinema horror e thriller italiano: un uso sistematico lo ritroviamo 
          ad esempio in Dario Argento.
 Gli sceneggiatori cercano di plasmare la materia per renderla più 
          vicina al pubblico italiano, ancora a digiuno di horror. I dialoghi 
          diventano veri e propri dibattiti filosofici, poemi in forma di battuta, 
          carichi della densità semantica di un testo teatrale più 
          che della facile espressione cinematografica. Basti pensare al surreale 
          soliloquio di Katia al suono stridulo di un tasto del pianoforte ("si 
          è rotto, come una voce che si spezzi") o al pomposo 
          lamento del dottor Kruvajan sulle rovine della chiesa sconsacrata ("più 
          di mille anni di lotte, di odi, di amori, ormai non sono che polvere 
          entro questi sepolcri, non resta che il ricordo delle antiche gesta. 
          Su queste pietre è scritta la storia della vecchia Moldavia").
 Bava, come suo solito, si diverte invece a giocare con le convenzioni, 
          fin dal prologo: è proprio il male (rappresentato da Asa) ad 
          essere illuminato mentre la massa di sacerdoti che punisce la strega 
          è relegata ai bordi dell'inquadratura e vestita di nero. Asa 
          è inoltre l'unica ad essere inquadrata in primo piano, col volto 
          in piena luce e non chiaroscurato mentre il capo dei primati di Moldavia 
          (nonché suo fratello) è in penombra e inquadrato solitamente 
          a mezza figura. Questo legame male/luce continuerà per tutto 
          il film: quando il dottor Kruvajan e il suo assistente Andrej esplorano 
          per la prima volta la cripta l'unico elemento illuminato (di una luce 
          innaturale) sarà proprio il sarcofago che contiene il corpo della 
          strega.
 
 Nuova dualita' del b/n
 Bava non utilizza il colore, grande innovazione della Hammer, ma uno 
          stupendo bianco e nero, probabilmente con la volontà di rifarsi 
          ai classici della Universal anni Trenta. Il regista può permettersi 
          infatti di indugiare sulla violenza grazie al fatto che Terence Fisher 
          aveva spostato la soglia del non mostrabile: se il regista inglese rende 
          particolarmente energici gli scontri, cruenti gli impalamenti - anche 
          grazie alle urla disumane delle vittime - , e mostra il cadavere di 
          Dracula decomporsi fino a diventare cenere, Bava non è da meno. 
          Mostra la maschera del demonio che si conficca nel volto di Asa (dal 
          quale zampillano schizzi di sangue), inquadra Javutich mentre si toglie 
          la stessa maschera ostentando il suo volto tumefatto, ed esibisce infine 
          la lenta ricostruzione della carne sul volto di Asa partendo dal cranio 
          putrefatto. E' il tentativo di dare carnalità e spessore fisico 
          al cinema fantastico, di virare verso la corporeità del male, 
          verso l'esibizione del sangue tipica dell'horror moderno. Fin dall'inizio, 
          quando il boia imprime sulle carni di Asa il bollente marchio di Satana 
          (una S appunto) capiamo che qualcosa è cambiato, che il dolore 
          e la mutilazione sono più vicini, più reali, più 
          spaventosamente visibili del solito. Il film comincia con un prologo 
          ambientato in un bosco molto stilizzato, fatto con pochi rami e al cui 
          fondo balugina una luce misteriosa: è evidente che la povertà 
          del budget non metteva a disposizione nulla di più. Lo scenografo 
          si arrangia come può a riempire il set vuoto e Bava si ingegna, 
          abilissimo nell'organizzazione prospettica, a giocare su inquadrature 
          strette (per non far notare la deficienza di mezzi) ma con una grande 
          profondità di campo e con gli elementi posizionati secondo diverse 
          distanze dall'occhio della macchina da presa. Se da una parte dunque 
          Bava da letteralmente un corpo al bianco e nero, dall'altra recupera 
          l'effetto di vecchie pellicole b/n in cui la mancanza di connotazione 
          relegava gli scenari ad un'atemporalità che dava validità 
          perenne alle azioni. La stilizzazione trasforma il set in una specie 
          di palcoscenico della mente umana (o della memoria), una sacra rappresentazione 
          dei vizi e delle virtù con grande valore esemplare.
 
 La macchina da presa
 Per ovviare all'impossibilità di grandi movimenti di masse, Bava 
          preferisce perlustrare gli spazi con una mdp dinamica suggerendo, col 
          suo movimento libero dall'azione dei personaggi, un palpabile clima 
          onirico. Il regista mette in cantiere una vasta gamma di soluzioni stilistiche 
          che, pur variando la loro importanza e il loro utilizzo nei singoli 
          film, costituiscono un elemento fondamentale della sua presenza nell'immagine: 
          carrelli, soggettive (anche senza soggetto), zoom velocissimi e "cadrages" 
          creano quel corredo stilistico che diverrà poi tipico del regista 
          sanremese. I carrelli sono utilizzati come silenziose panoramiche che 
          ambientano le azioni e, uso anche più originale, per legare in 
          piano sequenza alcuni personaggi o elementi del film: uno dei suoi usi 
          più originali è il movimento a "S", che si ha 
          quando la mdp, inquadrando lateralmente Katia al piano, muove dietro 
          di lei (riprendendola di schiena), prosegue in linea retta passando 
          di fianco a Costantino e, giungendo alle spalle del padre, ne inquadra 
          poi il volto attraverso un movimento di circumnavigazione della sua 
          figura, con simmetria perfetta tra il movimento iniziale attorno a Katia 
          e quello finale.
 Il carrello fluidifica le riprese, immerge lo spettatore in un continuum 
          temporale non spezzato dal montaggio, danza in un mondo che viene configurato 
          come fantastico proprio per la sospensione dello sguardo che i movimenti 
          della mdp incarnano.
 Bava si serve anche di alcune soggettive senza soggetto, ovvero non 
          ancorate ad un punto di vista. Ne abbiamo un esempio durante la prima 
          visita di Andrej e Chomà alla chiesa sconsacrata: Andrej va ad 
          aiutare il cocchiere in difficoltà con la ruota del calesse che 
          si è sfilata, mentre Chomà rimane ad osservare la tomba 
          di Asa; ad un certo punto la mdp si disinteressa di lui ed inizia a 
          carrellare e poi zoomare verso un antro buio, quasi a sottolineare l'atmosfera 
          di pericolo incombente; Chomà infatti viene subito aggredito 
          da un pipistrello. Compaiono inoltre soggettive che incarnano esse stesse 
          l'irreale. Un esempio è l'avvicinarsi di Javutich alla camera 
          del principe: non ci viene mostrato lo zombie ed in realtà il 
          movimento della mdp non la configura come perfetta soggettiva; è 
          piuttosto un fantasma che aleggia (come il vento che ne segue la marcia) 
          e fa sussultare la fiamma del caminetto, fa cadere gli spartiti dal 
          pianoforte, butta giù le armature. Lo zoom viene invece usato 
          con grande parsimonia, ancora lontano dagli eccessi an(ti)estetici del 
          suo cinema deteriore. Bava crea lo stilema della zoomata veloce per 
          dare un effetto significante allo spavento dei personaggi, come lo zoom 
          repentino sul principe Vajda che impugna il crocifissoper scacciare 
          Javutich in preda al terrore.
 Bava utilizza sistematicamente anche il "cadrage": aggiusta 
          sempre, tramite carrello, l'inquadratura, in modo che i personaggi siano 
          sempre disposti perfettamente entro il riquadro del campo visivo. L'aggiustamento 
          dell'inquadratura permette di non effettuare stacchi, è una figura 
          creatrice del piano-sequenza e facilita il lavoro in fase di montaggio.
 La profondità di campo è un altro elemento particolarmente 
          curato da Bava (lo abbandonerà nei film meno curati, caratterizzati 
          proprio dalla piattezza dell'immagine): i carrelli (che aggirano gli 
          oggetti della scenografia) aumentano il senso di profondità come 
          anche le inquadrature costruite con oggetti posti su piani differenti. 
          Questo espediente aiuterà Bava anche in seguito ad arricchire 
          visivamente le scarne scenografie nelle quali si troverà a "girare".
 Bava è infine un abile operatore e lo dimostra imbastendo arditi 
          svolazzi stilistici: il raccordo tra due scene avviene dal nero con 
          la mdp che, carrellando all'indietro, esce da un trombone e perlustra 
          lo spazio della locanda dove il dottor Kruvajan e il suo assistente 
          stanno soggiornando; una panoramica a 360 gradi ci presenta la chiesa 
          sconsacrata la prima volta che Kruvajan e Andrej vi giungono; durante 
          il prologo, quando il boia si avvicina ad Asa con la maschera del demonio, 
          quest'ultima passa attraverso la mdp.
 
 Il montaggio
 La maschera del demonio ha una varietà di raccordi 
          e una molteplicità di invenzioni che nessun film successivo del 
          regista eguaglierà: il dottor Kruvajan, avanzando verso la mdp, 
          ne copre l'obiettivo; interessante il raccordo, utilizzato molte volte, 
          basato sull'uscita da sinistra di un personaggio, lo stacco, e l'entrata 
          da destra di un altro in uno scenario completamente diverso: ad esempio 
          lo stalliere esce correndo nel corridoio del castello, a sinistra dall'inquadratura, 
          mentre una ragazza, nell'inquadratura successiva, entra da destra correndo 
          nel bosco; inconsueto anche il passaggio in cui il dottor Kruvajan lancia 
          un sasso in un laghetto: pian piano dai cerchi concentrici dell'acqua 
          smossa dal sasso compare in sovrimpressione il volto della strega. Il 
          montatore Serandrei si dimostra sempre molto abile nel raccordare le 
          scene in modo da sciogliere una narrazione che a volte sembrerebbe costruita 
          per blocchi statici. Invece di raccordare separatamente il dialogo tra 
          Katia e Andrej e la scoperta del passaggio segreto (rinvenuto fortuitamente 
          perché una tenda ha preso fuoco) il montatore, prima che i due 
          innamorati si salutino, anticipa parte della scena successiva con la 
          tenda che brucia; le due scene vengono intrecciate e destano la curiosità 
          dello spettatore, desideroso di conoscere l'esito dell'incendio.
 
 Il punto zero
 Le novità de La maschera del demonio sono evidenti 
          fin dai titoli di testa, uno sfondo nero con lapidarie scritte in bianco: 
          quel nero carico di premesse è il punto zero dell'horror italiano, 
          l'alfa e l'omega a cui tutti i film gotici italiani si rifaranno più 
          o meno distintamente. E' il nero dell'anima dell'uomo, il profondo pozzo 
          oscuro dove risiede l'enigma dei più insondabili segreti, dove 
          si deposita il residuo di una paura vecchia come il nostro codice genetico. 
          Il prologo del film è altrettanto indicativo: la cerimonia del 
          rogo alla strega Asa mostra un legame metacinematografico notevole con 
          l'operazione del regista. Gli astanti incappucciati e mai inquadrati 
          in volto o con primi piani, silenziosi nel buio "originario" 
          del bosco, assorti di fronte alle fiamme del rogo purificatore sono 
          come il nuovo spettatore del cinema popolare, spettatore la cui presenza 
          nell'oscurità della sala e di fronte alla luce del proiettore 
          battezza la nascita dell'horror italiano.
 
 
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