Persona & Mulholland Drive
Il sogno e l’ideale
di Luigi Porto

 
  Betty Lonely, her green eyes are roughly staring
at a point through the sliding glass door
her heart lives over a drawbridge

Vic Chesnutt, “Betty Lonely”, da “Is the actor happy?”

1. L’implosione: il sogno (parte prima)
L’attrice Elisabeth Vogler un giorno decide di non parlare più. Passa le sue giornate nella più completa afasia, contemplando la realtà con sguardo sornione. Non disdegna gli sguardi. Un letto bianco è il suo punto di osservazione sul mondo.
Per lei il tempo si è dilatato fino a raggiungere una dimensione quasi metafisica: la rinuncia alla comunicazione si trascina appresso la rinuncia ad un ruolo, quello di interprete dispensatrice di emozioni, di tramite tra il dramma e il pubblico. Elisabeth ha smesso di essere medium, quindi – di conseguenza – di essere protagonista e madre.
Per la società la rinuncia di Elisabeth è una malattia. Alma, infermiera alle prime armi, viene incaricata di starle vicino, di parlarle e cercare di filtrare per lei la realtà circostante, di penetrare la conchiglia in cui si è rifugiata la bella attrice afona. Tocca a lei, inconsapevole sognatrice che vive una vita piena di distratte illusioni, comprendere a fondo l’implosione dialettica di un personaggio che invece ha puntato in alto, a dare il massimo senso alla vita, ha già sognato e ha deciso in piena maturità di chiudere il ciclo nella maniera più radicale e indolore possibile.
Le due si ritirano in esilio in un cottage su una spiaggia semideserta, dove finiranno per smettere le proprie maschere e i propri panni, confondere le loro personalità e perdersi l’una nell’altra dopo una graduale ma completa compenetrazione fatta di confessioni, scoperte, vergogne. E, naturalmente, sogni.

Anche Diane è un’attrice, anche lei “non praticante”, almeno non del tutto: in questo caso non per scelta, ma per impossibilità. Aspirante divetta di Hollywood, trapiantata sulle colline della fantasia da un’imprecisata America borghese e sognatrice, si trova la strada sbarrata dalla “pupa del regista” di turno, Camilla, che la precede sempre di un passo nel casting e nella carriera, assicurandole però, sotto la sua ala protettrice – e per amicizia – una serie di particine di secondo piano, di cui la biondina è costretta ad accontentarsi. Questo genera, nella fragile psiche del personaggio interpretato da Naomi Watts, uno strano e tormentato sentimento di odio-amore per quello che è insieme il suo passaporto per il grande schermo e l’ostacolo primo ai suoi sogni di protagonismo. E, non in ultimo, un’ossessione personale dettata da un misto di ammirazione, idealizzazione, insicurezza.
La piccola attrice giungerà ad un disperato suicidio, non prima di aver immaginato una realtà altra, dove il corollario della sua vita calza perfettamente ai suo bisogni e spiana un sentiero verso le sue ambizioni insoddisfatte.
Una volta persasi, agonizzante, nel suo personale film nel quale partorisce altri ruoli ed altri panni per i personaggi scomodi che la circondano, reinventandoli in maniera quasi neutra - e comunque bendisposta - nel migliore dei casi (Coco, il produttore) rendendoli comici o impotenti nel peggiore (Adam, Camilla/Rita) rivoltando come un guanto la sua vita dandosi perfino un altro nome, Diane/Betty si muove dapprima ostentando sicurezza, poi a tentoni, si scontra con una marea di simboli necronimici (il barbone, il Winkie’s, il Cow-boy, la chiave blu) ma non riesce a chiudere il cerchio e ad inventare una non-realtà perfettamente mimetica. L’inconscio, dopo il viaggio dimensionale, ritorna da dove era partito, e come in un brusco risveglio si trova faccia a faccia con la sua nemesi totale, la morte. Tutto comincia a riacquistare crudelmente il senso originario, la personalità ancora incompleta di Rita/Camilla annaspa e si riappropria di sé mentre Diane, tristemente e inesorabilmente, si perde come in un ritratto ovale.

Due storie lontane nel tempo e, seppur a prima vista possa non sembrare così, anche nel contesto (il mondo teatrale mitteleuropeo e velato di romanticismo di Bergman è quanto di più lontano dalla rappresentazione dello show-businness celluloideo statunitense che interessa Lynch) ma vicinissime per alcuni aspetti di base.
Innanzitutto l’ossessiva plurivalenza dell’oggetto sogno (“oggetto” non a caso, proprio perché esplorato in ogni sua connotazione semantico-linguistica e circumnavigato con metodo quasi cubista) che sembra permeare ogni attimo, ogni inquadratura delle due pellicole, fino a compenetrarsi naturalmente con l’idea stessa di cinema.
Il sogno è innanzitutto sogno di gloria, obiettivo di vita, ossessiva speranza e dedizione totale. è la ricerca disperata di dare un senso all’esistenza, che l’autore di Persona si permette di analizzare e narrare con il piglio faustiano proprio del vecchio continente, mostrando l’inquietudine di chi non ha aperto gli occhi (Alma, che inizialmente ha come massima aspirazione un mediocre matrimonio ed una vita innocua) e la disillusione di chi, come Elisabeth, ha viaggiato attraverso il suo sogno ed è riuscito ad andare oltre, a vedere per un attimo il barlume della realtà e del futuro, imponendosi alla fine una scelta di sterilità parente prossima del Nirvana.
A Lynch invece, più che l’analisi lucida e diegetica dell’oggetto onirico interessa un empirismo mimetico, uno sguardo “dal di dentro” al dramma del sogno svanito, da sempre principale causa dell’atto suicida. Il regista americano, interessato all’universo perturbante della psiche (con le idee chiare sulla rappresentazione onirica fin dagli esordi di The Alphabet), nella volontà di dar voce alle oppressioni di una realtà da incubo nella città dei sogni, Hollywood, tesse gli spaventosi filamenti della perdizione della protagonista utilizzando mezzi espressivi imparentati con l’horror. L’incubo è generato, a suo modo, dalla morte del sogno, dal suo ingresso in un circolo vizioso, un dedalo senza via d’uscita. Il delirio pre-morte si aggrappa in maniera disperata a tutto ciò che rimane: l’immaginazione, il film potenziale che permette di manipolare la realtà, dirigere i rapporti interpersonali nella direzione desiderata – quindi tenere i fili di quel teatrino di marionette che è la vita.

2. L’ideale: Alma e Elisabeth
Del resto è nel rapporto obliquo che lega Alma ad Elisabeth e Diane a Camilla che si può trovare la prima, calzante interpretazione delle due opere in chiave esistenzialista (e cioè quella su cui si cerca di fare il punto nel presente scritto). Molto è stato detto sul ruolo (supposto) centrale dell’omosessualità in Persona e Mulholland Drive. In realtà l’attrazione-repulsione descritta dai due registi tocca lidi molto più profondi, nei quali l’aspetto sessuale assume spesso connotati di catalizzatore di intimità e tendenza al confronto.
La base comune dell’analisi dei movimenti psicologici delle due protagoniste principali (Alma e Diane, più naturalmente destinate all’identificazione rispetto a Camilla ed Elizabeth) sotto questa luce si può riassumere in tre momenti principali:
1) l’ammirazione incondizionata per l’amica/maestra (idealizzazione);
2) la cessione completa di sé;
3) la delusione e la conseguente rivalità.
I primi due stadi prevedono, come accennato, il fenomeno di un’ossessione personale, che in sé contiene già molti aspetti della “ricerca del doppio”. Alma, giovane infermiera quasi rassegnata all’esistenza che le scorre addosso, scopre forse per la prima volta in Elizabeth un soggetto sensibile ai suoi racconti, qualcuno che la ascolti incondizionatamente – qualcuno che sembri anche solo un poco appassionato alla sua vita (in realtà Alma di questo si autoconvince, ed “imbocca” tale ruolo ad un’impenetrabile Liv Ullmann: in ciò sta la grandiosa prova delle due attrici). Nel silenzio della Vogler sta la sua forza di persuasione nei confronti della ragazza, che pian piano si ritrova, quasi senza accorgersene, ad affidarle in toto la propria vita passata, dopo averla superficialmente analizzata da una prospettiva privilegiata (ricordiamo che le due si sono ritirate in isolamento). è il momento per - forse - esorcizzare tutto quanto c’è di precedente, ed una donna affermata, vincente, ma silenziosa – quindi non invasiva con la sua esistenza inevitabilmente ingombrante - sembra essere il ricettacolo ideale nel quale riporre i propri segreti.
Del resto Alma aveva espresso alla dottoressa, dopo aver visto per la prima volta Elisabeth, la sua perplessità riguardo l’essere adatta a starle vicino. “Questo compito richiede qualcuno con più esperienza”, dice, e già tradisce il timore di non essere all’altezza non già del lavoro, ma dell’individuo in compagnia del quale si appresterà a trascorrere un periodo.
Individuo del quale finirà inevitabilmente per innamorarsi. Intellettualmente, s’intende: Elisabeth è tutto ciò che Alma non è, cioè una persona con esperienza, affermata nel lavoro e nella vita, rispettata, capace di aver coronato un sogno di un’elevazione notevole, e tuttavia indipendente, misteriosa, sicura di sé. La psiche debole della giovane e insicura apprendista non si sottrae al confronto, si autoanalizza, apre gli occhi ed in men che non si dica Elisabeth è bell’e idealizzata, diventata idolo di marmo. Ed è un idolo amico.
Ma la delusione arriva presto (ed è contemporanea alla comparsa nel film della voce della Ullmann, seppure sotto forma di lettera). Quanto Elisabeth scrive all’amica lontana è una coltellata in pieno petto per la povera Alma. Per numerosi motivi: perché si rende conto improvvisamente (quanto ingenua!) del fatto che Elisabeth è silenziosa, ma non muta, solo che riserva le sue parole per altri; perché si accorge dell’atteggiamento distaccato che Elisabeth teneva nei suoi confronti; perché si sente derisa, umiliata, studiata, ripiombata nel limbo dei personaggi “inferiori”; perché sente di non aver guadagnato la stima e l’amicizia dell’inarrivabile attrice.
Tutte queste componenti si fondono assieme e non riescono ad abbattere il muro dell’idealizzazione (malgrado svariati e goffi tentativi, ad esempio nella visionaria scena in cui Alma osserva l’amica dormiente e ne esalta i difetti: “sei buffa quando dormi... una ruga ti imbruttisce il volto… odori di sonno e di pianto”). Sconfinano in episodi vendicativi come quello dei pezzi di vetro messi di fronte alla porta mentre Elisabeth è a piedi nudi, o scoppi di sincerità implorante, come la richiesta di “una parola qualsiasi” sulla spiaggia.

3. L’ideale: Diane e Camilla
Nella pellicola di Lynch, inutile a dirlo, la concatenazione tra i tre momenti tocca vette ben più drammatiche. Come, del resto, più drammatico è il confronto (succitato) tra il teatro romantico mitteleuropeo e l’internazionale mondo hollywoodiano.
Diane, a differenza di Alma, ha un sogno ben preciso e sa benissimo come fare per tentare di realizzarlo. Il suo (reale o solo immaginario?) approdo sulle colline del cinema è lastricato di buoni propositi e di speranze, probabilmente nemmeno mal riposte a giudicare dalle sue soddisfacenti capacità professionali. Il suo sogno, quindi, è lucido e consapevole, anche se la biondina sembra aver fatto i conti senza l’oste.
Camilla rappresenta, nel baraccone allegorico della Hollywood lynchiana, la componente extra-artistica ed extra-professionale. L’ostacolo all’immaginario glorioso, la predestinazione (“è tutto un nastro”) e l’incomunicabilità (“Silencio!”), elementi che si accostano alla critica che Lynch muove al movie-system americano, dove spesso il regista è mero esecutore di un copione già deciso a tavolino dal potere economico dei produttori. Il dramma viene trasposto nel flebile corpo della biondina, che ad un certo punto della sua vita si trova le strade sbarrate da entrambe le parti: non può andare avanti, ma non ha nemmeno più la forza di tornare indietro. Il gesto (forse) suicida deriva quindi da una disperata idealizzazione di un personaggio che è vicino e lontano allo stesso tempo (che arriva fino all’attrazione e alla fantasia omosessuale), croce e delizia di una carriera che è un tutt’uno con l’anima. Il secondo stadio, quello della cessione di sé, è una diretta conseguenza, ed è sublimato in toto nella completa dipendenza dell’una dall’altra.
Il “non poter odiare” chi, comunque, pur in buona fede, le rende la vita difficile la trasporta in questo limbo d’indecisione, in un universo disorientante dove la distinzione tra buoni e cattivi non è mai netta. Diane ha però bisogno di distinguere, di assegnare delle parti: ed è quello che fa nel suo “film psichico”, dove i protagonisti della sua vita sono caratterizzati, come ho già detto, secondo un criterio di spoliazione e semplificazione che ne fa delle innocue marionette, le quali in alcuni casi subiscono una grottesca vendetta (la derisione di Adam, diventato uomo-comica: si vedano al proposito le analisi di Freud sulla vicinanza tra il sogno e il comico, o anche più semplicemente la parte del volume di Roy Menarini “Il cinema di David Lynch” dedicata alla “gag”).
Il giro di boa avviene quando la deriva di Diane (che ha fuso la sua personalità con quella di Camilla) giunge di fronte al cospetto del suo corpo esanime e putrescente, che equivale al brusco risveglio (e alla “martellata secca” di cui parlerò più avanti). Qui lo stadio ultimo, quello della delusione, genera addirittura il desiderio inconfessabile di uccidere l’amica-rivale.
è interessante notare come Lynch, un regista che notoriamente non proviene da una formazione filocinematografica, riesca ad avere uno sguardo distaccato e lucido (nonostante il sogno!) su un mondo che in tanti hanno cercato di descrivere: egli riesce a raccontare il “metodo” del cinema, a farne una critica e contemporaneamente ad ammaliare lo spettatore con i mezzi propri del film.

4. Il sogno (parte seconda): la fotografia
C’è una scena, in Persona, legata ad una visione notturna di Alma: in un’unica, complessa inquadratura (a più piani, di derivazione forse hitchcockiana) si vede Elisabeth che, bianca come un fantasma, passa dalla sua stanza a quella di Alma per recarsi in un altro vano adiacente, quindi torna indietro. La scena è resa dal fotografo Sven Nykvist in maniera strabiliante, con l’utilizzo di una luce particolare che non lascia indovinare la fonte, e di un fortissimo contrasto. L’impressione è esattamente quella di essere Alma che, semi-dormiente, si accorge degli strani movimenti dell’amica. Lo spettatore viene trasportato in uno stato di semi-incoscienza vicinissimo al dormiveglia. (Da notare l’indecisione di Alma, la mattina dopo, nell’accettare il fatto come sogno o realtà: chiede ad Elisabeth se per caso quella notte fosse entrata in camera sua, e questa scuote la testa come per dire “no”).
Anche in Mulhollad Drive ci sono diverse scene che presentano un utilizzo particolare della luce e della fotografia. Mi viene in mente, al momento, verso la fine del film, l’episodio in cui Diane, sola in una stanza (un salotto) esamina la piccola scatola blu. La saturazione dei colori, presente in tutta la pellicola, qui forse raggiunge il suo apice; la camera è in leggero movimento, ma non c’è montaggio, l’inquadratura è unica; i drones (vedi capitolo 5) sono al loro massimo. E soprattutto, la luce non ha una fonte precisa, ma è diffusa, come se provenisse dagli oggetti stessi.
Ricordo a proposito una frase di Gerard De Nerval (che peraltro introduce l’articolo “Nella dualità della luce” di Bruno Roberti, in Filmcritica n. 523): “Tutti sanno che nei sogni non si vede mai il sole, benché si abbia sovente la percezione di una luce molto più viva: gli oggetti e i corpi splendono di luce propria”.
Ci troviamo, in questi due casi, ai tentativi di rappresentazione mimetica del sogno forse più arditi in tutto il cinema. Di fronte ad essi, con tutto il dovuto rispetto, alcuni lavori surrealisti appaiono per quello che sono, cioè divertissement semiseri.

5. Il sogno (parte terza): il sonoro
Due parole sull’utilizzo della sonorizzazione nei film trattati si rivelano necessarie: sia per sottolineare alcuni aspetti di parentela prossima con l’universo onirico, che per individuare l’utilizzo di stratagemmi che rendono giustizia a quella parte del cinema di genere più ingiustamente sottovalutata, l’horror, che con le sue sperimentazioni in campo visivo e sonoro ha aperto numerosissime strade alternative, poi regolarmente battute dai grandi autori. (C’è da dire anche che, come insegna Teo Mora, il cinema dell’orrore è di sicuro quello che lavora più di tutti di concerto con la psiche: impossibile per autori come Bergman e Lynch non attingere a piene mani da questo tesoro di esperienze!).
In Persona, che ha un montaggio avaro di commento musicale, gli aspetti dell’evoluzione sonora che si prestano naturalmente all’analisi sono quelli del lungo e shockante prologo.
Ho detto “shockante” non a caso, poiché è nello “shock” il primo topos in cui ci si imbatte. Dalle prime immagini della lampada ad arco e del proiettore, passando per il cartone animato, lo slapstick e quelle che Chion chiama “immagini traumatiche” (cioè l’agnello sgozzato, il ragno e compagnia bella), si nota l’eccessiva fluidità di un montaggio tutto sommato estremamente eterogeneo. Questo è dovuto a due fattori principali: innanzitutto la carenza di punti di sincronizzazione tra video e audio, essendo questi ultimi - almeno per il momento - due colonne distinte e separate, che nel migliore dei casi presentano una coerenza audiovisiva differita (il suono viene prima dell’immagine). Poi l’alternanza dello spettro tonale, che varia dalle frequenze alte dei glissati strumentali iniziali al filtraggio sulla banda media (emulazione del “disco vecchio”) ma non si avventura inizialmente in territori più bassi: o, se lo fa, evita attacchi d’inviluppo molto forti come suoni percussivi isolati.
Quando questi ultimi (i suoni percussivi) si presentano, un riverbero li avvolge e li culla rendendoli inoffensivi. Lo stesso artificio è usato per ovattare la presenza del pianoforte e degli altri strumenti.
In questo panorama di assoluta fluidità e scorrevolezza, l’avvento secco, battente, tagliente, compresso e ricco di frequenze della mano inchiodata (sottolineato da un assurdo silenzio) è quanto di più impressionante il cinema abbia mai dato: ed è lì che ha luogo l’effetto shock.
In questo caso è impossibile non ritornare un attimo sull’oggetto onirico, dato che le analogie sono più d’una. Tutto un universo sonoro asincrono, ovattato e distante, che d’un tratto, senza preavviso, lascia il posto ad un colpo secco e presente: cosa c’è di più vicino al suono di un brusco risveglio in piena fase R.E.M.?
La “musica del sogno” c’è anche in Mulhollad Drive. Ho accennato prima ad un evento shockante del film paragonandolo alla “martellata” bergmaniana: la scoperta del corpo di Betty/Diane. Ebbene, è interessante notare come l’espediente sonoro utilizzato in tutta la pellicola, cioè il drone (tappeto di bassi risonanti, generalmente ottenuto tramite sintetizzatori ma anche abbassando il pitch di suoni naturali o concreti) aumenti in maniera esponenziale, in quanto a presenza, dopo questo evento e fino alla fine del film.
I drones sono particolarmente amati da Lynch: essendo anch’egli musicista dilettante, e trattandosi di un metodo di sonorizzazione relativamente semplice ma di grande effetto, li usa fin dai tempi dei primi cortometraggi (The Alphabet e The Grandmother), anche se la piena perizia tecnica ed artistica viene raggiunta con l’oramai iconografica colonna audio di Eraserhead.
Il primo (e più estremo) film di Lynch è anche il più vicino al suo personale concetto di unheimlich di derivazione onirica. I drones postindustriali ricoprono il campo audio dell’incubo, e si propongono come vero e proprio suono dell’incubo. Inutile e scontato in questo caso far notare la forte vicinanza di un tappeto di frequenze basse con la percezione dei suoni esterni nella fase R.E.M.
In Mulhollad Drive l’incubo viene subito dopo il sogno, ed è perciò ragionevole l’aumento di un suono-rumore inquietante e disturbante, che filtrato attraverso l’iconografia horror mantiene uno stato di tensione anche in scene che, per loro natura, non dovrebbero presentarne. La martellata, quindi, non è un brusco risveglio, ma in questo caso un cambio di registro, un precipizio.
L’unico tema musicale di Badalamenti è associato non ad un personaggio, ma ad un luogo: alla strada, appunto, quella “mulholland dr.” che segna il confine tra Hollywood ed il resto del mondo, e quindi tra il sogno e la realtà - troppo lontana dalle colline del cinema, che può solo ammirare, e contemporaneamente abbastanza isolata rispetto ai centri abitati (a parte forse la villa-fantasma del regista).