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Orphans, Giamaica e la Polveriera

Il mondo solo di notte
Primo Piano di Stefano Coccia



^ Orphans, di Peter Mullan

Tre film diversi, legati da una suggestione, forse da un arbitrio. Gli eventi raccontati in Orphans, Giamaica, Bure Baruta vivono, pulsano in una dimensione notturna. La luce naturale indietreggia di fronte al peso specifico di certi volti, visibilmente provati dalla veglia; il sole si concede, al limite, tramite un chiarore incorporeo, parodia del giorno, e cornice di destini già compiuti prima dell'alba.
Il mondo vive solo di notte. L'Europa piange di stelle offuscate dallo smog cittadino la sua acquisita insignificanza. Ricomponendo i frammenti della sua cartina, memori di guerre passate e future, ci vien voglia di perlustrare le sue periferie alla luce di lampioni a gas e luci al neon.
Il presente è stasi; di notte ribolle e rivela le nevrosi di chi è condannato all'attesa e alla speranza mortificata. Scegliendo tra le tante anime in pena, pediniamo in Scozia gli orfanelli di Peter Mullan. Orphans, capogiro di un prologo; quattro fratelli perplessi e impauriti di fronte a una bara. Sempre insieme, nonostante tutto. Rimane negli occhi il giro di giostra di una panoramica che li ritrae tra presente e passato, dentro una stanza, prima adulti, alle prese con l'immobilità imbarazzante del lutto, poi bambini, chiassosi nel letto della madre scomparsa. Eppure sono divisi da un oceano di problemi, ed altri ne verranno ora che hanno perso il loro punto di riferimento. La notte li accoglie e li tradisce, e sarà una notte incredibile, interminabile. Una serata al pub prima della veglia funebre catalizza le amarezze e le tensioni, degenera in rissa, e i destini si separano temporaneamente.
Si affoga nei propri guai. Il fratello maggiore, ipocritamente al servizio di un ricordo e di una fede, rimane a presidio della bara in una chiesa palcoscenico di gags dal sapore "slapstick", con statue in frantumi e tetti che magicamente volano. E' il meritato assedio alla torre d'avorio di chi si crede più maturo e in realtà vuole isolarsi dai problemi degli altri: la sorella minore è lasciata a deambulare in carrozzella nelle strade deserte in compagnia del suo handicap e delle battute sgraziate della gente (il "politicamente scorretto" ghigna continuamente in Orphans); i due fratelli vagano come schegge impazzite, feriti nell'addome (le coltellate fanno male...) o nell'orgoglio.
Si susseguono storie grottesche e piani assurdi. Persone comuni e balordi dichiarati, se è ammissibile una distinzione, agiscono sistematicamente ai margini del buon senso.
Divagazioni e aneddoti "pulp" a volte divertono, non sempre convincono: i coltelli e le schioppettate incidono meno delle parole, nella Scozia di Peter Mullan. Pare che ogni incontro, ogni rapporto umano si nutra di insulti pittoreschi e di aggressività verbale senza controllo. E' il calco spietatamente parodistico di una società dell'indifferenza e dell'insofferenza.
Prime luci del giorno. L'alba tramonta sulle preoccupazioni e sui fremiti degli orfanelli di Peter Mullan, li costringe a ricongiungersi e a guardarsi in faccia. Ci sarebbero un funerale da celebrare e l'urgenza di un ricovero: ma non sempre è chiara la priorità tra l'omaggio ad un defunto e il soccorso ad un fratello ferito. In ogni caso tutto è presto dimenticato, proiettati nuovamente nella precarietà dell'esistenza. Sempre insieme, nonostante tutto. Qualcuno però è scomparso sul serio, a Roma.

Altra notte, tutt'altra storia. Siamo spinti fuori della fiction dall'improvvisa necessità di ricordare un fatto di cronaca. Qualche anno fa un giovane di colore, Auro, trova una morte violenta nel rogo di un centro sociale. Il regista di Giamaica, Luigi Faccini, aveva incontrato lui e il suo mondo, i suoi amici, sulla strada di un impegno sociale che doveva sfociare nel suo cinema e nella sua letteratura di allora. A distanza di anni un omaggio sentito, una ricostruzione che è soprattutto reinvenzione, produzione di mito. La cronistoria di un mondo periferico diventa magicamente sinfonia di un'emarginazione, di un sentire, lo specchio di una realtà fraintesa dalle voci officianti e autorevoli della società civile. Realtà fraintesa perché vista esclusivamente nel suo pericoloso sovrapporsi alla normalità e alla legalità. Lo sguardo che non teme l'oscurità scopre al contrario un mondo composito, un mondo che si espande e si contrae nelle ore notturne ondeggiando tra scommesse clandestine, retate della polizia, azioni violente e ingiustificate, ma anche musica, amicizia sincera, raduni pacifici, alternative artistiche. Ed anche le scelte e le vite dei protagonisti ballano su questo instabile confine. Tale notturno italiano prende vita, nel film, dall'autocombustione della foto che Auro, ragazzo animato dal sogno di approdare alla terra promessa, la Giamaica del reggae, scatta con i suoi amici, i giorni prima di bruciare egli stesso.
Introduzione ed allusione tragica. E' il biglietto da visita di una regia romantica e idealista, così sensibile ai colori, i colori della vita, ma anche sincera e brutale nella rappresentazione della violenza e del vizio. I colori del sogno giamaicano, il giallo, il verde, il rosso, il Negro, li troviamo esposti nei murales, nelle bandiere, nei simboli, nelle facce degli amici di Auro e forse perfino nei loro gesti. Brillano nell'oscurità perché sono vita, ribellione, autenticità, lottano nella loro fragilità per sottrarsi al buio, al nero delle pistole e del tetro abbigliamento "skin-head", al blu scuro delle divise d'ordinanza.
Faccini modula la scala cromatica di Giamaica immergendola nel reggae e nel calore delle percussioni, fingendosi regista da Sundance festival nell'approccio dinamico e moderno alla regia: spumeggianti le riprese che fotografano fantasiosamente le sfumature della notte, regalando un ritratto inedito delle periferie capitoline, libero e creativo l'uso del montaggio, che isola come totem i graffiti, le vernici, quasi un'epidermide nel rivestire l'anima di chi le ha prodotte.
Gli amici di Auro viaggiano sul furgoncino dei buoni propositi alla ricerca degli assassini del loro amico, s'imbattono invece in storie di ogni tipo che li lasciano con gli stessi interrogativi, ma ne pongono di nuovi a noi, ospiti della loro Tortuga e delle sue regole. Soggiogati dal blues metropolitano di Faccini, attendiamo con trepidazione il trascorrere dell'ultima notte, la più minacciosa, la più inquietante, un ponte sospeso tra il medioevo eterno dell'Europa ed un futuro di insicurezza e di paure.

Bure Baruta, la Polveriera. La sirena di allarme del serbo Goran Paskaljevic, fiero epigono di Cassandra, ha suonato per tempo, ma l'incendio, come da programma, è scoppiato ugualmente.
Come è ovvio che sia, perché il cinema scruta nelle viscere come un aruspice, ma non prescrive farmaci.
Belgrado, figlia di un dio minorato di nome Milosevic, piange oggi le sue macerie e le sue miserie, vittima di tutte le decisioni di tutti quelli che possono decidere. La città può guardare indietro nel film di Paskaljevic come in una specie di "Ritratto di Dorian Gray". Invecchia e puzza di morte con lo scorrere della pellicola, esibendo un che di beffardo e di sulfureo. E' il cabaret Balkan, signori, e si ride, ma molto amaramente.
Bure Baruta è notte fonda, siamo in strada quando sono già calate le tenebre e nessuno vedrà sorgere l'alba. Tutto, e il contrario di tutto, accade di notte, in una sola notte. Uomini e donne ridotti a fasci di nervi saturano la città di rabbie e malumori.
Il loro palcoscenico è addobbato fantasiosamente e festosamente. Genio slavo. Apparizioni e malie, depositate nell'immaginario cinematografico a nome Fellini, a nome Kusturica, a nome Jakubisko, risorgono nel pandemonio belgradese.
Come fantasmagoriche orchestre in navigazione sul fiume con il loro carico di musicisti, come autobus dirottati da giovani impazienti e sarcastici, con il loro carico di varia umanità.
Varia, varia umanità. Sfollati della guerra in Bosnia, ex-militari, ex-poliziotti, ex-vittime, gente qualunque, tutti i tipi che Paskaljevic ci mette davanti esibiscono storie paradossali, flirtano con l'assurdo, vivono con fierezza l'anormalità. La danza macabra impegna tutte le energie del grottesco, esplode in sarcasmi, sfiora il barzellettistico, culmina in traumi e violenze. Qualunque sia l'esito delle loro vicende, i protagonisti di Bure Baruta, spesso in movimento, fuggiaschi sui treni, sott'acqua, per le strade, si immolano sull'altare di un passato pervasivo, opprimente. Ferite scoperte, vecchie rivalità e antichi torti, o semplicemente lo sgarbo e la provocazione di un attimo prima.
E' metafora di una storia più o meno recente che non lascia spazio alla riconciliazione. E' parodia dei rapporti umani di una sedicente società civile che sa definire il suo status e i suoi criteri, ma fa fatica a rintracciarsi sul mappamondo, coprendosi gli occhi di fronte al fallimento dei Balcani, ma solo per dire il più eclatante.
La "normalità" di Bure Baruta prevede coltellate sotto la doccia e bombe in valigia durante gli spostamenti ferroviari. Altrettanto "normale" che alla fine del film la polveriera esploda, rimpiendo di sinistri bagliori i fotogrammi finali della pellicola.
Le ultime notti del ventesimo secolo coronate da effetti pirotecnici.
Il cinematografo annuncia con mesta generosità.
La CNN è già pronta con le telecamere.