Gente di domenica

La rivoluzione in un caffè
di Stefano Finesi

 
  Menschen am Sonntag, Germania, 1929
Regia e sceneggiatura Robert Siodmak, Billy Wilder, Edgar G. Ulmer, operatore Eugen Schüfftan, con Erwin Splettstößer, Wolfgang von Waltershausen, Brigitte Bochert, Christl Ehlers, Annie Schreyer

Berlino, 1925: Grosz, Brecht, Schomberg, gli architetti del Novembergruppe, sono solo alcuni dei protagonisti di una stagione culturale irripetibile per la capitale tedesca, mentre le ferite della Grande Guerra sembrano cicatrizzare e le ombre del nazionalsocialismo sono ancora lontane. E’ in questa città in fermento, in cui i leggendari stabilimenti dell’UFA sono il faro del cinema europeo, che arrivano in cerca di fortuna due giovani ebrei originari di Dresda: Robert e Kurt Siodmak, neanche cinquant’anni in due, hanno sbarcato il lunario fino a quel momento nei modi più disparati, il primo è stato attore, banchiere e venditore ambulante ed entrambi hanno tentato la strada del giornalismo con risultati alterni. A Berlino il cinema è un lavoro come un altro, forse meglio pagato e sicuramente ricchissimo di opportunità, ma è anche un mezzo espressivo che grazie al genio di Lang, Murnau, Pabst, ha raggiunto una maturità piena. I fratelli Siodmak hanno la fortuna di agganciare un lontano zio improvvisatosi produttore, Heinrich Nebenzahl, che sistema Robert come assistente alla regia negli studi della Nero Film, mentre Kurt tenta di vendere alcuni soggetti.
Se negli anni venti le grandi rivoluzioni culturali sono partite dai caffè, è in un caffè che nasce anche l’idea di Menschen am Sonntag (Gente di domenica, 1930), il film destinato a diventare non solo il primo diretto da Robert Siodmak e un enorme successo di critica e di pubblico, ma un simbolo della felicità creativa di un’epoca e di una generazione di artisti che di lì a poco sarà condannata a perdersi per il mondo o, nel migliore dei casi, a ritrovarsi nella gabbia dorata di Hollywood.
Attorno al tavolo del caffè, oltre i due fratelli Siodmak, c’è un tale Samuel Wilder Baldinger, sceneggiatore in erba che gli amici chiamano Billie, nome che lui stesso porterà con sé in America firmandosi Billy Wilder; c’è Friderich Zimmermann, un oscuro operatore che ventitré anni dopo, ribattezzatosi Fred Zinnemann, girerà Mezzogiorno di fuoco; c’è infine Edgar G. Ulmer, già assistente di registi del calibro di Mihaly Kertesz (il futuro Michael Curtiz di Casablanca) e F.W. Murnau, e destinato presto a diventare l’autore dei più inquieti film gotici hollywoodiani. I cinque discutono della necessità di girare un film che rompa gli schemi tradizionali e infranga le rigide regole produttive e commerciali vigenti all’UFA: detto fatto, con l’aiuto dell’amico Moritz Seeler fondano una piccola casa di produzione indipendente, che battezzano “Filmstudio 29”, e si mettono sulla traccia di un’idea che possa fare al caso loro. Kurt fornisce lo spunto con un suo reportage su come i berlinesi passano la domenica e tanto basta a Wilder per tirarne fuori una sceneggiatura ben congegnata; i soldi, ovviamente, scarseggiano, ma è ancora Kurt a risollevare la situazione fornendo un assegno guadagnato con la vendita di un racconto a una rivista.
Il film viene girato in un’atmosfera di piena libertà, che se non fosse per le date sembrerebbe venire diritta da un film della nouvelle vague o del free cinema inglese, così come potrebbe dirsi per la storia narrata, una storia di incontri casuali, di combinazioni inaspettate, di ironiche schermaglie amorose: cinque protagonisti, pescati quasi per caso nella folla berlinese e tutti di modesta estrazione (un tassista, un rappresentante, una commessa, una modella e una comparsa cinematografica), intrecciano le loro storie nell’arco di un week-end, per ritornare infine inghiottiti nell’anonimato metropolitano. All’attenzione psicologica riservata alle diverse situazioni e tipica di tutte le future regie di Siodmak, si mescola così il taglio fortemente documentario delle riprese cittadine en plein air, sulla scorta di una tradizione, quella delle “sinfonie” dedicate alle grandi città, che proprio nella Berlino di Walter Ruttmann ha il suo manifesto più compiuto.
Il successo straordinario del film apre al regista le porte dell’UFA, ma il nostro non potrà approfittare appieno dell’opportunità: nel 1933 l’avvento del nazismo produce conseguenze immediatamente drastiche e quando egli si ritrova tagliato dai titoli di testa del suo Brennendes Geheimnis, poiché Goebbles ha messo al bando ogni nome ebreo, la strada per Parigi diventa una necessità di sopravvivenza. Siodmak è in buona compagnia: se Ulmer già da diversi anni si è trasferito oltreoceano (da dove a più riprese e palesemente a torto rivendicherà la paternità di Menschen am Sonntag), egli trova in Francia Wilder, Pabst, Peter Lorre, Fritz Lang (narra la leggenda fuggito con le pizze del Mabuse sotto il braccio) e Max Ophuls, reduce sfortunato dal grande successo di Libelei. Con Lang, Siodmak dividerà la scelta in America del genere nero, di cui diventeranno entrambi maestri indiscussi districandosi tra le maglie dello studio system, con Ophuls quella del ritorno in Europa negli anni cinquanta. “Finora – ebbe a scrivere - il mio istinto non mi ha mai tradito. Ho lasciato la Germania il giorno prima che Hitler prendesse il potere. Il giorno prima che scoppiasse la guerra mi sono imbarcato dall’Europa per gli Stati Uniti. Un anno prima della TV ho lasciato l’America per l’Europa.” Anche l’Europa, però, non è quella di un tempo, né Siodmak sembra entusiasmarsi per le prove delle nuove onde che portano alla ribalta una nuova generazione di cineasti. Privato sotto il tallone delle dittature dei suoi migliori talenti e ancora dolorante per i postumi di una guerra che l’ha segnato in profondità, il vecchio continente probabilmente ha visto svuotarsi i suoi caffè di artisti convinti di poter cambiare il mondo. Un tempo, c’era chi avrebbe creduto di farcela, anche con un film, e forse, almeno in parte, c’è riuscito.