Dancer in the 90s

Derive del musical negli anni '90
di Carlo Vargas

 
 
"Odio quando nei film le canzoni crescono, crescono, con folle di persone e tutto, e la cinepresa sale attraverso il tetto… Perché è l'ultima canzone e poi il film finisce. Da piccola uscivo dal cinema sempre dopo la penultima canzone… così non finiva mai…"
In Dancer in the Dark il musical prosegue parallelo alla cecità di Selma, è la contropartita immaginifica la cui crescente intensità serve a fronteggiare una realtà sempre più disperata (e invisibile). Ma il nesso tra rimozione visiva del reale ed evasione fantastica del numero musicale aiuta a capire la natura di questo genere assolutamente atipico tra i generi cinematografici classici: l'unico a chiedere alla spettatore di "chiudere un occhio", ossia di sospendere la propria credulità, l'unico a forzare l'intoccabile circuito chiuso della finzione.
Non è un caso, quindi, che buona parte dei musical tradizionali (da A Star is Born di Cukor a A Chorus Line, passando per The Band Wagon e Singin' in the Rain) siano ambientati nel mondo dello spettacolo, dove la preparazione di uno show di qualsiasi genere sostiene la filosofia del "tutto il mondo è palcoscenico" e rende così meno traumatica l'inserzione musicale, l'interruzione della verosimiglianza. Dopo il sostanziale declino negli anni ottanta, il musical ha conosciuto una nuova affermazione nei novanta, ma non nella veste di genere strutturato, capace di nuovo di affacciarsi sul mercato (come, almeno per un certo periodo, potrebbe essere successo al western), bensì come esperimento d'autore, esplorazione passeggera attuata come il tentativo più estremo del bricolage postmoderno. Proprio la capacità straniante insita nel musical diventa così non più fonte di imbarazzo da ricomporre il più possibile in un quadro armonico, ma punto di forza da esibire sfacciatamente, marcando in modo vistoso la frattura della verosimiglianza. Ballo e canzoni mettono in moto un sovvertimento dello statuto finzionale proprio perché, nella maggior parte dei casi che andremo ad analizzare, rivendicano un'assoluta incongruenza con il resto del film.

Greatest Hits

Dimenticate artisti e palcoscenici: grigi borghesi e comodi soggiorni prendono possesso del musical, con le conseguenze del caso. Il vecchio Resnais, in Parole parole parole (On connait la chanson), più che far cantare i suoi personaggi sembra lasciare che "vengano cantati": il contesto è quello della commedia borghese agrodolce e la messinscena non muta di una virgola quando sui dialoghi da camera dei protagonisti si innesta una canzonetta. Gli attori cantano (in playback sulle incisioni originali) come senza accorgersene, mantenendo l'impostazione naturalistica della recitazione e il contraccolpo dello straniamento che ne risulta riesce a denunciare la banalità delle situazioni, realizzando una sorta di grottesco da salotto. Stesso ambiente borghese anche per il Woody Allen di Tutti dicono I Love You (Everybody Says I Love You, 1996), malgrado qui l'esperimento del musical, preceduto non a caso dalla trovata del coro classico ne La dea dell'amore, sembrerebbe avere tutte le carte in regola. Il cast variopinto erompe improvvisamente in numeri musicali d'annata con annesse coreografie, intrecciandole con il resto del film in modo alquanto tradizionale. Il regista newyorkese, tuttavia, disinnesca il meccanismo dall'interno: i suoi attori sono ballerini e cantanti altamente improbabili, impacciati se non stonati (lo stesso Allen si prodiga con un filo di voce in "I'm trough with love"), nonché incongruenti nella loro quotidianità con il leggero scarto fantastico sempre necessario al numero musicale. Ritroviamo così medici e pazienti a cantare in ospedale, con tanto di gambe ingessate e sedie a rotelle, mentre Allen sottolinea l'effetto lasciando inalterata l'illuminazione e ostentando per lo più una camera fissa che ha proprio il compito di non trascinare lo spettatore nell'esecuzione ma di lasciarlo distante, marcando comicamente l'assoluta inadeguatezza degli esecutori.
Un congelamento simile, tale ricercata distanza, lo ritroviamo anche in un film come Blues Brothers 2000 (id. 2000), seguito maltrattato per il troppo illustre precedente, ma tappa coerente del percorso intrapreso da Landis nel corso degli anni novanta. La scelta del musical sembrerebbe qui decisamente più integrata, ma asseconda in realtà un diverso indirizzo di regia. Il riconosciuto nume tutelare del cinema demenziale, almeno da Oscar in poi, ha abbandonato del tutto i condizionamenti della commedia come genere narrativamente organico per dedicarsi a una pratica dell'assurdo più radicale: il demenziale allo stato puro, a differenza del comico, non coinvolge nella risata ma allontana, congela, scava un vuoto imbarazzante intorno allo spettatore. In questa prospettiva (basterebbe considerare, per lo scarto rispetto ai precedenti, un film come Beverly Hills Cop 3) si può spiegare il carattere meno energetico e più posticcio del ritorno dei fratelli Blues, l'atmosfera più distante in cui vengono immersi i numeri musicali, che contribuiscono al gioco continuo e sottile della sospensione del senso e obbediscono a una strategia generale dello straniamento.
Più ardui, comunque, i confronti che il musical deve sostenere con protagonisti veramente insospettabili: Branagh mette alle strette nientemeno che il prediletto Shakespeare, già abituato nel corso degli novanta a ogni possibile rimasticamento. Pene d'amor perdute (Love's Labour Lost, 2000) diventa un amabile musical vecchio stile, ambientato negli anni '40 e forte di un repertorio che va da Gershwin a Cole Porter, ma anche, naturalmente, l'esperimento di un autore sensibile sulla tenitura drammatica (infinita) dell'opera del bardo, un modo di rendere omaggio alla sua grandezza proprio dimostrandone l'estrema flessibilità davanti ogni contaminazione.
Il vero incontro impossibile è, invece, quello del musical con la mafia, nell'incredibile parata grottesca messa in piedi da Roberta Torre con Tano da morire (1997). Il gioco del pastiche e del carnevalesco tocca qui vertici assoluti e la scelta del musical si rivela perfettamente funzionale all'esibizione sfrenata del kitsch: l'interesse della regista non riguarda la realtà del sud ma una sua dimensione mitica assorbita attraverso uno sguardo esterno (quello di una milanese) e riletta in una rappresentazione evidentemente straniante; non è un caso allora che le canzoni scritte da Nino D'Angelo siano in napoletano, malgrado l'ambientazione palermitana, e alimentino con la loro incongruenza l'impressione di un calderone meridionalista completamente slegato dalla realtà.
In The Hole (Dong, 1998), infine, Tsai Ming-liang fa in modo che il numero musicale si sganci definitivamente dal resto della narrazione. Prodotto dalla rete televisiva franco-tedesca "Arte" per la serie L'année 2000 vue par…, il film si nutre di un opprimente millenarismo, con la sua città abbandonata per una misteriosa epidemia, l'assoluta incomunicabilità tra i protagonisti e una terribile pioggia battente che neanche per un attimo abbandona la colonna sonora. Tale atmosfera sordida, attraversata dai personaggi come da presenze fantasmatiche, si squarcia improvvisamente grazie a vivaci numeri musicali: i due protagonisti, fra le pareti squallide del caseggiato inondate di colori sgargianti, si esibiscono in diversi numeri facendo il verso ai vecchi musical hongkonghesi con Grace Chang e quindi agli inevitabili modelli hollywoodiani. Sono brevi sipari senza alcuna funzione narrativa, né sospettabili di un qualsiasi significato che non sia pura nostalgia del sogno e dell'ingenuità di una cultura ormai estinta all'approssimarsi del nuovo millennio, frammenti di una comunicazione semplice e diretta ora non più attuabile se non come reminiscenza astratta.

Il sogno di Selma
La scelta di Lars von Trier di girare un musical è tanto più paradossale (ma ricordate i brevi, immobili numeri musicali paesaggistici de Le onde del destino?) se si pensa al - passato? - credo dogmatico del regista: la cintura di castità, almeno per quello che appare sullo schermo, rimarrebbe ben salda, con la grana a vista, la voluta sciatteria del digitale riversato su pellicola e il tour de force di una macchina rigorosamente a mano; ma i numeri musicali e il percorso parallelo che tracciano all'interno del film, innescano nuove dinamiche formali. Scherzando ma non troppo, von Trier dice che Dancer in the Dark potrebbe considerarsi fedele al decalogo in quanto tale percorso appartiene completamente a Selma, visualizza ciò che accade nella sua testa. Egli sceglie per la messinscena di questi numeri-sogno di non alterare l'impostazione formale di base se non fissando la camera (l'unica eccezione è su "I've Seen It All",dove viaggia sul treno insieme agli operai) e scandendo la scena con un montaggio serratissimo, incaricato di riordinare il girato prodotto da ben cento telecamere presenti sul set. È come se la fantasia di Selma si attivasse come intersezione tra spazio reale e spazio mentale, comportando sul piano della forma che l'impronta dogmatica passi al vaglio ritmico dei tagli di montaggio, acquisti cioè un ordine musicale pur restando se stessa. Solo nel finale, quando Selma muore e la sua vista si spegne definitivamente, il contatto con la realtà è reciso e lo spazio del film diventa puro spazio della fantasia: un dolly, impensabile come pratica e figura filmica negli ultimi film del regista, descrive un ampio, silenzioso movimento dal basso in alto, come nei finali di quei musical che facevano fuggire Selma dalla sala un attimo prima. Un solo movimento di macchina si carica così di un incredibile potere di trascendenza, riesce ad esprimere attraverso la visione un puro anelito spirituale, speculare al nero prolungato con cui il film si apre. Ora il musical ha spodestato il reale e il sogno può durare per sempre.