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A prova di errore e il Dottor Stranamore

Discorsi d’autore: questione di stile
Primo piano di Piero D’Ascanio



Attenzione! L’articolo contiene rivelazioni sul finale dei film.

A guidarci in questa avventurosa “doppia visione” è stata la scoperta di uno dei titoli meno noti della straordinaria filmografia dell’eclettico e instancabile Sidney Lumet, autore - in questa sede non lo sentirete mai definire “mestierante”- di una pugno di opere fondanti il cinema americano a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. A definire il potenziale registico del cineasta di Philadelphia basterebbe solo ricordare quello che fu il suo esordio (!) sul grande schermo, nientemeno che la Parola ai giurati, autentico paradigma di cinema civile interamente orchestrato all’interno della camera di consiglio di un tribunale: il materiale umano fornito da una giuria solo apparentemente concorde sul verdetto da emanare offre a Lumet lo spunto per un confronto psicologico appassionante e serratissimo, nel quale “dodici uomini arrabbiati” si trovano a fare i conti con la responsabilità morale di una condanna a morte.
Alla folgorante opera prima - alla cui epoca il nostro era peraltro già attivissimo in televisione - Lumet fece seguire, tra gli altri, l’Uomo del banco dei pegni (1964), Serpico(1973), Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), Quinto potere (1976), il Principe della città (1981), Terzo grado (1990); per citare solo i grandi. A prova di errore si situa sulla metà dei Sessanta, e va a costituire il risultato senz’altro migliore di tutta la decade, quello in cui si riconosce chiaramente la non comune predisposizione e disinvoltura del cineasta verso il lavoro di messa in scena in interni: in questo, complice con tutta probabilità la formazione televisiva, egli si distacca da quel comune denominatore del nuovo cinema americano costituito dalla netta predilezione per vicende ambientate “en plein air”, on location, siano esse set per realistici squarci di vita metropolitana o per ariose derive extraurbane. In particolar modo, Fail-safe (così in originale) ricorda proprio il film d’esordio del regista; lì, ad ospitare la vicenda era un unico, claustrofobico interno, mentre nel film del 1964 la partitura spaziale è maggiormente variegata: ma il gesto registico che governa il gioco attoriale, determina l’alternanza dei punti vista, detta il ritmo narrativo, è in tutto e per tutto il medesimo. Ad accomunare le due opere in una sorta di “dittico civile” concorrono inoltre le stesse vicende messe in scena, dominate peraltro sempre da un calibratissimo Henry Fonda: in entrambi i casi – ma in modo più sfumato nel film del 1957 -, ad essere messi in drammatica contrapposizione sono le istanze democratiche e pacifiste contro quelle reazionarie e nazionaliste. Infatti – e qui abbandoniamo la prospettiva d’autore entrando nel merito della questione - Fail-safe costituisce la più affilata invettiva antimilitarista dai tempi degli Orizzonti di gloria kubrickiani (ancora 1957). Non solo: a rendere inevitabile una correlazione tra l’abilissimo Lumet e il genio di New York concorre la fatale coincidenza di date tra le uscite al cinema di A prova di errore e de il Dottor Stranamore, girato da Kubrick sempre nel 1964 (ma in Gran Bretagna). Ebbene, le affinità tra la pellicola americana e il corrosivo capolavoro britannico sono notevoli; e sebbene gli anni Sessanta siano in genere ricordati come il decennio della paura atomica, qui le analogie vanno davvero oltre: esse investono tanto la fabula quanto la stessa struttura narrativa, tanto da renderle praticamente assimilabili l’una all’altra. Nel dettaglio:

Idea:
il sempre più complesso apparato tecnico preposto all’organizzazione bellica, e la progressiva concentrazione del totale potere militare nelle mani di un pugno di folli individui, condanneranno l’umanità allo sterminio.

Soggetto:
Le operazioni di continuo pattugliamento dei cieli da parte dell’aviazione occidentale, dirette a localizzare eventuali offensive sovietiche, vengono interrotte dal sopraggiungere di un ordine di attacco sulla Russia (innescato da un guasto tecnico nel film di Lumet, direttamente impartito da un folle generale in quello di Kubrick; ma le dinamiche messe in moto sono poi identiche). I tentativi di revocare l’ordine non vanno a buon fine - complice l’ottusità e la megalomania degli ufficiali di terra e di aria -, e si arriva a cercare di abbattere gli aerei, pronti a lanciare testate nucleari. Nulla da fare. Le bombe esplodono.

Al livello successivo, quello di intreccio vero e proprio, le due opere si differenziano in modo più netto: del resto, siamo dentro la sceneggiatura dell’opera, e quindi nella fase in cui diventano operanti e anzi decisive le particolarità stilistiche e poetiche della stessa. In questo senso, i punti di contatto tra la scatenata satira che il Dottor Stranamore vuole essere e il serrato regime thrilling di A prova di errore cessano di esistere.
Ecco che allora, per ragioni di plausibilità drammatica che evidentemente hanno poco a che fare con lo stiletto satirico, nel film di Lumet la storia viene innescata da un disguido tecnico, che serve da grimaldello narrativo per il nodo drammatico vero e proprio, e cioè riuscire ad evitare che gli aerei sgancino le bombe sugli obiettivi russi; è in questa fase che vengono a galla i conflitti portanti, quelli che poi veicoleranno l’aspra critica mossa dall’autore.
Diversamente, nel film di Kubrick, lo spunto è fornito direttamente dalla folle iniziativa del generale Jack D. Ripper (attenzione al nome, Jack “The” Ripper), al quale, si dirà in seguito, “è girato il boccino”, ed in preda a evidente delirio ordina l’attacco atomico per evitare la “contaminazione comunista” nei “fluidi” del popolo occidentale. È già qui il nodo principale della denuncia kubrickiana, secondo cui la guerra è sempre in mano a pochi singoli, spesso dominati da istanze psicotiche, e destinati perciò a portare solo distruzione (era anche il discorso di Orizzonti di gloria, sebbene mutato di tono).
Le divergenze tra le due pellicole, quindi, sono fin da subito ascrivibili ai diversi intenti che i rispettivi autori si prefiggono: caricare una situazione drammatica in senso del tutto satirico e paradossale nel caso di Stranamore, rappresentare le reali e possibili conseguenze della stessa situazione in A prova di errore. In questa direzione, si spiega anche il maggiore dinamismo (anche spaziale) del film di Kubrick, più interessato a ricercare lo spunto comico fornito dai goffi tentativi di Peter Sellers/Generale Mandrake di salvare la situazione, che ad analizzare con precisione ed attendibilità le svolte psicologiche di personaggi impossibilitati a comunicare tra loro, se non telefonicamente, come accade nel film di Lumet.
Ma per il resto, e quindi al netto delle coloriture poetiche e stilistiche di due opere così caratterizzate in questo senso, il “set” dell’azione è il medesimo in entrambi i casi: a) aerei in pattugliamento costante; b) raggiungimento dei “punti inizio attacco”, e conseguente ordine di proseguire verso gli obiettivi; c) mancata possibilità di revocare l’ordine (dopo la verifica della “sicura d’errore” in Lumet, a causa del criptaggio delle comunicazioni radio in Kubrick); d) cooperazione delle forze armate occidentali con lo Stato Maggiore russo, nell’intento di abbattere lo stormo prima che avvenga il bombardamento; e) elusione del contrattacco russo da parte di uno degli aerei, e lancio degli ordigni.

Il cinema ha da sempre abituato lo spettatore a “corto circuiti” di questo tipo; a ben vedere, quello preso in esame non è nemmeno dei più improbabili, considerato che si tratta di due registi connazionali e praticamente coetanei (del resto Kubrick, se non fosse diventato irriducibile a qualunque categorizzazione per virtù stilistiche e svolte biografiche, avrebbe potuto far parte a buon diritto della cosiddetta New Hollywood). Ma la coincidenza cronologica e soprattutto tematica tra le opere di due cineasti fin dagli esordi così lontani tra loro - formazione televisiva e tecnica da una parte, fotografica e subito artistica dall’altra - non potevano non suscitare delle riflessioni: a maggior ragione, nel caso in cui la tragica conclusione a cui arrivano, purtroppo, si riveli la medesima.