Wallace & Gromit:
la maledizione del coniglio mannaro

Introduzione all’intelligenza
di Maurizio Di Lucchio

 
  Wallace and Gromit: the Curse of the Were-Rabbit, Usa, 2005
di Steve Box e Nick Park.


I film d’animazione stanno acquisendo una fisionomia sempre più vicina ai film realizzati da attori in carne ed ossa. I temi trattati, i materiali adoperati, il registro drammatico e il tipo di narrazione sono solitamente gli ambiti in cui i registi cercano di agire per operare questa mimesi. In Wallace & Gromit: la maledizione del coniglio mannaro la strada maestra che porta all’assimilazione tra fiction umana e fiction animata è la plastilina. Il primo lungometraggio dedicato alla spassosissima coppia inventata da Nick Park e Peter Lord – successivamente si è aggiunto anche il co-regista Steve Box - è infatti un trionfo della plastilina, che assurge a materiale d'elezione per confezionare una mediazione verosimile tra la plasticità tridimensionale dei corpi umani e la carica di fantasia che riesce a trasmettere l'animazione. Fare una distinzione tra animazione e film classico non equivale a un declassamento di nessuna delle due categorie. Può essere utile, però, per notare come i due generi, ora più che mai, cerchino di assomigliarsi e di scambiarsi le peculiarità più importanti. In una stagione cinematografica in cui la stop-motion è tornata in auge grazie al delizioso la Sposa cadavere permettendo a dei pupazzetti di colonizzare l’immaginario sentimentale delle generazioni a venire, il bizzarro inventore mangia-formaggio (Wallace) e il suo cane salutista (Gromit)  si propongono come i personaggi del grande schermo che possono spiegare ai bambini (sicuramente i maggiori fruitori della pellicola) come si possa vivere con intelligenza nel mondo dei grandi. Nonostante una sceneggiatura non priva di sbavature e debolezze, la pellicola introduce a una serie di situazioni tipiche del mondo adulto più disilluso e nostalgico, senza rinunciare a una certa grazia della rappresentazione e a raccontare una storia edificante. Temi profondamente moderni come la doppia personalità, la schizofrenia, le manie salutiste, le diete, le relazioni sentimentali equivoche e gli stessi ogm, si mescolano nella storia delicatamente tentando di presentarsi attraverso delle forme visive adatte a un pubblico trasversale di tutte le età. L’opera dei creatori di Galline in fuga asseconda i più piccoli con i ritmi propri dell’animazione contemporanea; contemporaneamente, però, inizia a sottrarre ai bambini i punti di riferimento cromatici che possono apprendere dai cartoni animati giapponesi e da quelli targati Disney, saturando tutti i colori e regalando alle immagini una fluidità dai toni quasi espressionisti. Lo stesso modo in cui viene rappresentato il rapporto tra il padrone e il “servo” supera le dinamiche consuete di servilismo e subordinazione proprie della letteratura e del cinema per ragazzi e assume un respiro dialettico degno di Hegel: non è un’esagerazione. Citando direttamente il filosofo tedesco: “Il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, si conchiude così soltanto con la dipendenza della cosa, e puramente la gode; peraltro il lato dell'indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora” (da Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973). Gromit tratta Wallace con la fedeltà propria di un cane, ma non permette mai al suo padrone di avere il controllo su ciò che gestiscono insieme, ovvero l’agenzia caritatevole di disinfestazione “anti-pesto” contro i conigli mangia-ortaggi. E’ il cane che escogita le strategie migliori per il loro lavoro ed è sempre lui che risolve tutte le situazioni imbarazzanti che si creano lungo il corso della storia. Se si accetta di leggere il film come una piccola introduzione al vivere in maniera intelligente in mezzo ai grandi, Gromit rappresenta probabilmente il personaggio essenziale perché mette in scena un modo originale e attivo  di interpretare il ruolo di “subordinato” e suggerisce, insieme a Wallace, una tecnica pacifica per praticare un’attività che è distruttiva di suo (la disinfestazione dai conigli). Un altro aspetto che potrebbe tornare utile ai bambini quando cresceranno è il modo in cui il film gioca con i generi cinematografici. Noir, thriller, horror, mélo, dramma, commedia. Sono presenti tutti. Se i bambini cominciano a saper riconoscere i meccanismi di composizione della comunicazione audiovisiva già da tenera età, è più probabile che non si lasceranno turlupinare da chi proporrà loro le cosiddette “beffe mediatiche”

Wallace & Gromit: la maledizione del coniglio mannaro è una delle tante favole che ha l’obiettivo di raccontare in maniera simpatica e divertente la modernità e le sue nevrosi più banali. Non ambisce a voler rappresentare dei caratteri universali e atemporali e questa onestà intrinseca è un bene perché non ci troviamo di fronte a un’opera abbastanza onnicomprensiva e trasversale come tutte le grandi favole che si rispettano. Ha il grosso merito, però, di creare delle icone che, grazie alla loro leggiadria, faticheranno a uscire dall’immaginario di bambini e non. Non ultimi, i coniglietti presenti qua e là nel film si candidano a contendere ai pinguini di Madagascar il titolo di animali più cool della stagione. Inoltre, i pur pochi momenti di umorismo sono quasi sempre impeccabili e la marcetta che apre e chiude il film mette un incredibile buonumore. Probabilmente c’è uno scarto un po’ troppo marcato tra le gag principali, che funzionano benissimo, e il tessuto narrativo, che invece spesso si lascia andare a momenti lenti. Questo lascia pensare che le prossime avventure di Wallace e Gromit potrebbero ottenere un risultato migliore se gli autori andranno a rispolverare la forma del cortometraggio con cui si erano fatti conoscere e apprezzare qualche anno fa.