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l’Ultima missione
MR73, Francia, 2008
di Olivier Marchal, con Daniel Auteuil, Francis Renaud, Olivia Bonamy, Philippe Nahon, Catherine Marchal, Virginia Anderson

La (noveaux) vie en noir
recensione di Lorenzo Conte



Rigenerazione. Il noir cerca di risorgere dalle sue ceneri, tra le pieghe del cinema in cui è nato negli anni ‘30, la Francia. Ma si riparte da più avanti, dall’innovazione Melvilliana: prima Corneau che riparte da Melville facendone remake (il recente e inedito in Italia le Douxieme souffle), ora Marchal che nel concludere con questo film la sua ideale trilogia iniziata con Gangsters e continuata con 36 (trilogia di cui non vi parleremo, per ignoranza di chi scrive) Melville lo tiene sullo sfondo, come punto di riferimento principale. Ma le vie del neonoir non sono affatto facili: Corneau sceglie l’esplosione del genere, ma fallisce in parte, Marchal punta tutto sulle atmosfere classiche rinnovandole nello stile e nel modo di approccio.
Strumento privilegiato di questa operazione di rinascita è il tutto fare di Francia: Daniel Auteuil - tra l’altro comun denominatore tra il film di Corneau e quello di Marchal - impegnato nella titanica impresa di ricostruire i personaggi significativi del noir, magari riportando un po’ della declinazione americana del genere che tanto ha contribuito a plasmare l’immaginario collettivo in questo senso. Ecco dunque Marsiglia diventare provincia dei sobborghi americani, sporca e sfatta costruita di ambiente fatiscenti e in rovina (l’effetto è quasi futuristico: la centrale di polizia pare la Ghotam City di Burton) e tuttavia coniugandosi alla perfezione alla peculiarità delle città d’oltralpe, classiche e pulite. Non è da meno lo stesso Auteuil, perfetta reincarnazione moudì del poliziotto duro e puro, tutto poche parole e bottiglia, di quelli con la moralità di ferro. Ma quelli erano uomini venuti dal nulla, giustizieri erranti nel chiaroscuro del bianco e nero, tra i porti, i fumi e l’alcool: Schneider un passato ce l’ha ed è quello a farlo quello che è. Ecco la vera innovazione di Marchal: tentativi di destrutturare (e quindi di rinnovare) il genere dall’interno trovandogli nuove motivazioni e ragion d’essere attigendo da dove si può (tanto dalla storia del cinema, tanto dall’esperienza vissuta - Marchal è un ex-poliziotto). Ma nella sua immersione del noir nel reale, Marchal finisce per essere perfettino con il risultato di un noir rinnovato sì, ma algido nei toni, freddo ed eccessivamente distaccato. Il paradosso del noir: freddo nei modi, caldo nei toni.
L’Ultima missione è gelido ovunque (e la fotografia, seppur bella, in questo senso non aiuta) seppure faccia uscire perfettamente una visione secca e senza scampo del mondo, dove tutti sono condannati in qualche modo, perché tutti colpevoli. Allora ecco che anche le emozioni stanno a zero e il tutto si ritrova ad essere scheletro vuoto e sterile, ben costruito e bello a vedersi, ma pur sempre sterile, ma pur sempre vuoto. In fondo a Marchal manca quello che era riuscito a Corneau, la capacità di estremizzare e di far esplodere le strutture. Correzione marxiana dunque (correggere l’uno con l’altro e viceversa)? In parte. Ma la (ri)generazione del noir (francese, in america ci hanno già pensato i Coen e de(ri)costruirla - leggasi: il Grande Lebowski, ad esempio) è appena all’inizio: avanti così, per tentativi, la nuova vie en noir è intrapresa. Il resto, vien da sé.